Plauto: Capt. 463 — Quis miserrimus est? *
1. Status quaestionis
Il verso Capt. 463 si legge all’inizio di un monologo di Ergasilo, monologo in cui il parassita lamenta la sua vita miserabile [1]:
Miser homo est, qui ipse sibi quod edit quaerit et id aegre inuenit, 461
Sed ille est miserior, qui et aegre quaerit et nihil inuenit.
Ille miserrimust, qui, cum† esse cupit, quod edit non habet. 463
[…]
Il v. 463 è corrotto sia per il metro che per il senso, visto che, come osservò E. Cocchia, “alla forma grammaticale più intensa del superlativo miserrumus non corrisponde nessun maggiore svolgimento nel pensiero, essendo il quod edit non habet niente più che una circollocuzione [sic] di nihil invenit” [2]. Nel passato numerosi studiosi provarono a sanare il v. 463, suggerendo diverse correzioni o integrazioni congetturali, ad esempio:
Cupit esse Guietus, Bothius; esse cupiat Bentleius; cupit, <id> Lindemannus;
cupiit Bothius; cupidust Fleckeisenus; ei lubuito lubitumst Muellerus; cupit, <tum>
Niemeyerus, ecc.
L’integrazione tum fu accolta da F. Leo, W. M. Lindsay, C. Pascal, P. Nixon, G. Augello, E. Paratore, ecc.; meno fortunati gli altri emendamenti. Ma tutti quanti, come giudicò F. Schoell, “versum fulciunt, non sententiam” [3]. Schoell stesso propose se rupit per sostituire esse cupit [4]. L. Havet, per quanto lo riguarda, corresse cupit in callet, traducendo i vv. 462-463 inquesta maniera: “mais plus malheureux est celui qui peine à chercher et ne trouve rien, et malheureux entre tous est l’expert en mangeaille à qui la mangeaille fait défaut” [5].
2. Una nuova correzione congetturale
Sul nesso esse cupit concordano i codici plautini; edit (B D E) ha invece una variante edat (O J F): il guasto potrebbe trovarsi sotto edit, del quale finora nessuno ha dubitato. Proponiamo di correggere – leggermente – edit in cepit, scandendo il v. 463 in questo modo [6]:
Īllĕ mĭ|sērrĭ|mūst, quī, | c(um)ēssĕ || cŭpĭt, quōd | cēpīt | nōn hăbēt
La traduzione dei vv. 461-462 e del v. 463 da noi emendato risulterebbe la seguente: “Sventurato è quell’uomo che cerca qualcosa da mangiare e dura fatica a trovarla; ma più sventurato chi dura fatica a cercarla e non trova niente. Sventuratissimo poi è chi, proprio quando desidera mangiare, non ha (più) ciò che ha trovato” [7]. Dunque, al superlativo miserrimus corrisponderebbe un “maggiore svolgimento nel pensiero”.
Il verbo capio è usato frequentemente da Plauto; nei Captiui si legge in 17 versi (comprese lezioni incerte e congetture): Arg. 1, Arg. 4, Arg. 8, 25, 27, 31, 94, 157, 256, 262, 330, 653, 685, 718, 722, 803 e 856; la forma cepit si verifica nei versi seguenti: Amph. Arg. i. 3, 108; Mil. 120; Pseud. 401; Truc. 144 [8].
Cupit e cepit costituiscono una paronomasia.
Sarebbe verificabile la corruzione da cepit in edit: la confusione tra le due lettere in maiuscola P e D non sarebbe impossibile; la caduta della C sarebbe dovuta al deteriora-mento materiale dell’archetipo; per di più, la presenza vicina di quod edit nel v. 461 avrebbe dato un “contributo” – forse maggiore – alla genesi dell’errore.
3. Quis miserrimus est?
Ma, secondo Ergasilo, chi è il più miserabile? Lui stesso?
Cocchia ritenne il v. 463 interpolato non solo per l’incertezza del suo metro e del significato, ma ancora perché esso “spezza quella contrapposizione tra miser e miserior, che è espressa dal sed del v. 462”, e in ultimo perché, “se il parassita poteva ben dolersi di non aver trovato ciò che desiderava, non poteva lagnarsi addirittura di non aver che man-giare” [9]. Con gli stessi ragionamenti vorremmo dimostrare invece l’autenticità del v. 463: se con i vv. 461-462 Ergasilo lamenta la sua propria vita, con il v. 463 egli intro-durrebbe un’allusione ironica riferita a un altro personaggio.
A chi? A Egione.
Vediamo cosa è successo prima del monologo di Ergasilo in questione (atto III, scena I): Egione, dopo la cattura di Filopolemo, ha comprato parecchi prigionieri, tra cui Filocrate, per salvare suo figlio; ma Filocrate, grazie al “sacrificio” di Tindaro, è fuggito dalle mani di Egione (atto II, scena III) – si noti che alla fuga di Filocrate succede immediatamente il monologo di Ergasilo –. Tutta questa vicenda avrebbe un risvolto culinario sulla bocca del parassita, mangiatore di professione: Filocrate è il “cibus” captus da Egione [10], per soddisfare non lo stomaco, ma il cuore, cioè l’amore paterno del senex; ma quando Egione esse cupit, cioè, al di fuori della metafora, scambiare Filocrate con suo figlio, il “cibo” prezioso è già scappato via – il povero vecchio scoprirà l’inganno di Filocrate e di Tindaro (atto III, scena IV) –. Prima della fuga di Filocrate, Ergasilo ha già chiamato Egione come miser senex: Aegre est mi hunc facere quaestum carcerarium / Propter sui gnati miseriam miserum senem (vv. 129-130); per il parassita, chi potrebbe essere ancora più miserabile di Egione, che ha catturato il “cibo” soltanto per perderlo di nuovo?
In effetti, il miser senex stesso pronuncia ben otto volte miser, nei vv. 503, 504, 641, 757, 806, 858, 993 e 994, e una volta miseria, nel v. 924: [Ioui disque…] Quomque ex miseriis plurimis me exemerunt. Fra altri i vv. 757-763 sono proprio un riassunto della sua vita tragica, un grido doloroso dal profondo del suo cuore:
Satis sum semel deceptus. Speraui miser
Ex seruitute me exemisse filium;
Ea spes elapsa est. Perdidi unum filium,
Puerum quadrimum quem mihi seruos serpuit,
Neque eum seruom umquam repperi neque filium.
Maior potitus hostium est. Quod hoc est scelus?
Quasi in orbitatem liberos produxerim.
Concludendo, diremmo che, dopo la fuga di Filocrate, Hegio homo miserrimus est, qui, cum esse cupit, quod cepit non habet.
* Ringrazio la Biblioteca Apostolica Vaticana di avermi permesso di consultare i due codici plautini B e D. Vorrei dedicare questo modesto contributo al defunto Prof. Zhang Guan-Yao (张冠尧教授), il mio primo professore di latino all’Università di Pechino.
[1] Il testo latino segue l’edizione di A. Ernout, Plaute. Comédies, Paris 1932-1961.
[2] E. Cocchia (ed.), I Captivi di M. Accio Plauto, Torino 1886, p. 50.
[3] F. Schoell (ed.), T. Macci Plauti Captivi, Lipsiae 1887, p. 118.
[4] Cfr. F. Schoell, ed. cit., p. 42, p. 118.
[5] L. Havet (ed.), Plaute. Les Prisonniers, Paris 1932, p. 63.
[6] La nostra scansione è identica a quella con l’integrazione tum.
[7] La traduzione dei vv. 461-462 e del primo emistichio del v. 463 è quella di M. Scàn-dola (C. Questa - G. Paduano - M. Scàndola (ed.), T. Maccio Plauto. I Prigionieri, Milano 20002, p. 133).
[8] Cfr. G. Lodge, Lexicon Plautinum, Lipsiae 1904-1933, t. i, pp. 233-236.
[9] E. Cocchia, ed. cit., p. 50.
[10] Per Ergasilo cercare il cibo è proprio come cacciare la selvaggina (cfr. vv. 85-87).
Li Song-Yang