Plauto: Capt. 699 *
(Salesianum, 68 (2006): pp. 237-250)
Sommario: Il verso Capt. 699 è mutilo. Basandosi sull’uso di pereo in Plauto, e sull’alta frequenza della parola nel contesto immediato del v. 699, l’autore ha proposto una nuova integrazione congetturale con perit (forma contratta di periit). Gran parte dell’articolo è dedicato alle analisi sulla trama dei Captivi, sul carattere e soprattutto sulla psicologia dei tre personaggi in questione, per provare che la battuta perit sia pronunciata da Egione, anziché da Aristofonte o da Tindaro. Una minuziosa disamina sulla tradizione manoscritta dei Captivi si è effettuata per giustificare l’aggiunta di due notae personarum nel nuovo emendamento. Infine, l’autore ha esposto gli aspetti favorevoli alla sua proposta conget-turale: il gioco di parole con il doppio senso di pereo; la comicità derivata dal contrasto fra perit e Bene est; la figura retorica (allitterazione); la corruzione più facile da spiegare con perit, ecc.
Abstract: The line Capt. 699 is mutilated. Following the use of the word pereo in Plautus, and its high frequency in the immediate context of the l. 699, the author has proposed a new conjectural integration with perit (contracted form of periit). The main part of the article is dedicated to the analysis of the play’s plot, the characteristics and especially the psychological states of the three characters on stage. It will be proved that perit should be said by Hegio, not Aristophontes or Tyndarus. A rather detailed examination of the Captivi’s manuscript traditions will show it justifiable the addition of the two notae personarum in the new textual emendation. The final section of the paper will discuss several aspects in support of the author’s argument: the pun of pereo; the comicality derived from the contrast between perit and Bene est; the rhetorical figure (alliteration); and the textual corruption that should be more easily explained with perit.
I. Status quaestionis.
Il verso 699 dei Captivi è mutilo. Trovandosi alla fine del verso la lacuna ci priva dell’ultimo piede del senario giambico. Nell’edizione di Ernout così si leggono i vv. 699-700:
In libertate est ad patrem in patria _.
Bene est; nec quisquam est mi aeque melius cui uelim [1]
L’emendamento più fortunato nel passato risulta la trasposizione di “Bene est” alla fine del v. 699, con diverse integrazioni per il v. 700. Risale già a Pylades (1506) e J. Camera-rius (1552) la tradizione di questo trattamento [2], che fu in seguito accettato da numerosi studiosi, come F. H. Bothe, K. E. Geppert, A. Fleckeisen, J. Brix, J. L. Ussing, F. Leo e W. M. Lindsay. La tradizione continua fino ai primi decenni del Novecento, con J. P. Waltzing e L. Havet, per esempio. Nel suo ricco commento Waltzing ha proposto la seguente spiegazione: “Dans les mss, bene est commence le vers suivant; mais les vers 691 à 725 y sont mal divisés. Bene est est nécessaire pour compléter le v. 699. Il serait difficile d’expliquer la chute des mots domo ou domi ou redux ou procul, qu’on a proposé d’ajouter. Au v. suivant, qui est égalmente incomplet sans Bene est, on peut expliquer la chute de usquam devant quisquam par les finales semblables dans la tournure fréquente: Nec usquam quisquam” [3].
Un altro emendamento assai fortunato è rappresentato dall’integrazione con “domo”, proposta da F. Schoell [4]. A questa ipotesi non pochi studiosi hanno dato il loro consen-so. G. Lodge l’accolse anche nel suo monumentale Lexicon Plautinum [5], in cui si constata la frequenza altissima di domus in Plauto. Tuttavia, sembra che neanche Schoell fosse sicuro della sua proposta, poiché nell’edizione del 1892, insieme con G. Goetz, egli lasciò la lacuna tale quale [6].
Grazie a Waltzing ho potuto conoscere altre tre integrazioni congetturali: “domi Raman; redux Speijer; fort. procul Niem.” [7].
Altri commentatori del Novecento, come Ernout, preferirono lasciare semplicemente la lacuna invece di proporre nuove integrazioni. E con lui si ricordano C. Pascal, B. Lavagnini, G. Augello e E. Paratore. Augello così spiega la sua scelta: l’integrazione di Schoell “ci pare […] poco sicura. […] Il Lindsay pensa che il testo si sia guastato perché bene est passò all’inizio del v. 700. Ma preferiamo seguire l’Ernout, che non tocca la tradizione manoscritta”[8].
II. Una nuova proposta di integrazione.
Dopo una lunga e minuziosa ricerca, mi chiedo se la parte mancante del v. 699 non debba essere “pĕrīt” [9], e se la battuta non debba essere posta sulla bocca di Egione. La mia integrazione in modo completo si presenterebbe allora così:
AR. In libertate est ad… patrem, in patria… [10]
<HE.> <Perit>!
<AR.> Bene est! nec quisquam est mi aeque melius cui uelim.
In italiano si potrebbe tradurre (drammatizzando):
Aristofonte (viene a conoscenza della verità all’improvviso): (Il mio amico Filocrate)
è libero da suo padre (volge alternativamente lo sguardoverso Egione e Tindaro
per chiedere una conferma definitiva)… e in patria…
Egione (rivolto a Aristofonte, con tono malvagio e doloroso): È morto! [11]
Aristofonte (con grande gioia): Bene! Non c’è persona a cui mi sento più affezionato.
Il mio proposito è ora quello di dimostrare la probabilità di questa nuova integrazione. La mia disamina distribuisce in quattro parti: 1. L’uso di pereo in Plauto; 2. L’attribuzione di “perit”; 3. Le omissioni e le aggiunte delle notae personarum nei Captivi; 4. Gli aspetti favorevoli alla mia integrazione.
1. L’uso di pereo in Plauto.
Il verbo pereo ha una frequenza altissima in Plauto, e lo si riscontra in tutti i suoi significati [12]. In Oxford Latin Dictionary, Plauto è lo scrittore più citato sotto il lemma di pereo [13]. Questo verbo nei Captivi si presenta nove volte nei versi seguenti [14]:
v. 537: Vtinam te di prius perderent quam periisti e patria tua
v. 635: … Pereo probe
v. 682: Dum ne ob malefacta peream, parui <ex>istumo
v. 683: Si ego hic peribo, ast ille ut dixit non redit
v. 688: Praeoptauisse quam is periret ponere
v. 690: Qui per uirtutem † perit at, non interit
v. 693: Vel te interiisse uel periisse praedicent
v. 694: Dum pereas, nihil interdico † dicant uiuere
v. 749: Peristis, ni istunc iam e conspectu abducitis
Nel v. 537 pereo significa “scomparire”; nel v. 635, “perdersi”; in tutti gli altri sette versi vale “morire”. Nella mia integrazione “perit” si presenterebbe con tutti questi tre significati principali, cioè in esso esisterebbe un gioco di parole.
2. L’attribuzione di “perit”.
Il v. 699 esce dalla bocca di Aristofonte, un personaggio che non ha una mente acuta. Figurarsi dunque se è capace di architettare un gioco di parole. Nella maggior parte dell’atto III, scena IV, egli ha cercato di rivelare a Egione la vera identità di Tindaro, senza rendersi conto della stupidità della sua intenzione e della conseguenza catastrofica. Quindi il concerto semantico di “perit” nella mia integrazione non corrisponderebbe bene al carattere di Aristofonte. In più, il gioco di parole che esisterebbe in “perit” suonerebbe con un risvolto piuttosto cattivo. Aristofonte è “amicus […] a puero puer” (v. 645) di Filocrate. Non è dunque probabile che “perit” esca dalla sua bocca.
Per la mia analisi, oltre al carattere di Aristofonte, contano anche (e di più) le sue reazioni psicologiche. Grazie al “contributo” di Aristofonte, Egione capisce che davanti a sé è un falso adulescens prognatus genere summo (cfr. vv. 169-170). Portato via da una grandissima furia, egli comincia a fare i conti con Tindaro. Dalla fine del v. 648 fino al v. 696, si articola soltanto il dialogo fra Egione e Tindaro, e Aristofonte non dice nemmeno una parola. Durante tutto questo tempo, che cosa farebbe Aristofonte sulla scena? Sta ascoltando Egione e Tindaro, certamente, ma sta anche riflettendo su tutto ciò che è successo. E sì, ci vuole un po’ di tempo perché Aristofonte capisca qualcosa. Solo fino al v. 697, rendendosi conto, finalmente ma già troppo tardi, della fuga di Filocrate, Aristofonte esprime così la sua gioia: “Pro di immortales! nunc ego teneo, nunc scio / Quid hoc sit negoti; meus sodalis Philocrates / In libertate est ad patrem in patria…”. Ma dopo tutta questa storia, quale potrebbe essere lo stato mentale di Aristofonte? Quali sarebbero i suoi pensieri? A mio parere, Aristofonte, in questo momento, è avvolto ancora da un gran buio. Quando l’attore recita il v. 699, sotto la regia di Plauto, senz’altro, non sarebbe impensabile che egli lo recitasse con un ritmo lento, un tono incerto, un modo esitante, per esprimere lo choc da lui subìto, la conseguente confusione e i dubbi che rimangono ancora nella sua mente (perciò ho messo una virgola dopo “patrem” per descrivere meglio le reazioni psicologiche del personaggio [15]). In questo caso, prima che Aristofonte fi-nisca il v. 699, un altro personaggio interverrebbe e farebbe sentire “perit”, per confer-margli che Filocrate è già scomparso. In tale prospettiva, dovrei attribuire “perit” a un personaggio diverso da Aristofonte.
Ma a chi?
In un primo tempo avevo attribuito “perit” a Tindaro. Il mio ragionamento era cominciato con l’analisi dell’uso di pereo nei Captivi. Aristofonte non dice mai questa parola (questo fatto potrebbe essere un motivo in più per non attribuirgliela). Fra i nove versi che contengono pereo, sei sono pronunciati da Tindaro (vv. 537, 635, 682, 683, 688, 690), gli altri tre da Egione (vv. 693, 694, 749). Ma i vv. 693 e 694 fanno parte della replica di Egione al v. 690 di Tindaro. Quindi l’uso di pereo nei Captivi riguarda quasi esclusivamente Tindaro.
Ma il motivo più importante per il quale avevo pensato di attribuire “perit” a Tindaro è che, solo dalla bocca di Tindaro, così pensavo, il tono di “perit” avrebbe assunto una coloritura ironica. Prima del v. 699, e a esso assai vicino, Egione e Tindaro hanno appena pronunciato insieme sei volte pereo nel senso di “morire” (vv. 682, 683, 688, 690, 693, 694). In 13 versi successivi si legge sei volte la stessa parola, una frequenza così alta è rarissima nei Captivi (ma si capisce che è adesso il momento di vita o di “morte” per Tindaro). Proprio questa alta frequenza mi ha fatto pensare che forse Tindaro avrebbe potuto usare pereo anche alla fine del v. 699, ma nel senso di “scomparire” invece che di “morire”: Filocrate è ritornato da suo padre, è scomparso in patria. Con “perit” Tindaro vorrebbe ovviamente ironizzare su Egione che, ricordandosi dei vv. 690, 693 e 694, avrebbe motivo di arrabbiarsi maggiormente. L’effetto voluto da Tindaro.
Pronunciata da Tindaro, la parola “perit” potrebbe inoltre essere anche un’eco lontana del v. 537. È vero che il v. 537 è una maledizione fatta da Tindaro e “periisti” si riferisce a Aristofonte, ma non sarebbe sbagliato dire che perire e patria è il loro destino comune: insieme partiti dalla patria, insieme catturati da mani nemiche, insieme venduti dal questore, insieme comprati da Egione. Così detto, il v. 537 potrebbe essere interpretato anche come una lamentazione per tutti loro. I vv. 537 e 699, tutti e due usciti dalla bocca di Tindaro, si corrispondono e costituiscono una sintesi della trama, un confronto delle situazioni cambiate: prima, (tutti) perire e patria, adesso, (Filocrate) perire in patria. Una specie di grande inclusione.
Con “perit”, Tindaro, sempre fiero delle sue azioni virtuose, conferma a Aristofonte la liberazione di Filocrate, il trionfo del loro inganno. L’intervento di Tindaro potrebbe essere anche uno dei suoi ultimi attacchi a Egione prima della sua rovina definitiva, non-ché un rimprovero a Aristofonte: “Guarda che bella cosa hai combinato, imbecille!” Comprendendo il vero significato di “perit” e non avendo più dubbi, Aristofonte esclama con gioia: “Bene est! nec quisquam est mi aeque melius cui uelim”.
Ma un’eccessiva fiducia accordata alle cifre statistiche mi aveva fatto dimenticare per un certo tempo che la letteratura non è matematica. Dopo un’analisi più approfondita sul testo intero dei Captivi, mi sono reso conto che l’attribuzione di “perit” a Tindaro non fornisce la spiegazione più convincente.
Pereo significa “scomparire”, nel senso di “s’en aller tout à fait” [16], “vanish, disappear” [17]. Ma Tindaro non penserebbe veramente che Filocrate non sarebbe mai più tornato a salvarlo. Il contrario. Nella scena di addio (atto II, scena III), Tindaro, con le sue geniali allusioni (cfr. soprattutto i vv. 401-413, 429-448), ci fa misurare concretamente la fiducia che egli ripone in Filocrate e la sua speranza nel ritorno di questi, e addirittura la probabilità di essere liberato dal padre di Filocrate come compenso per le sue azioni virtuose.
Malgrado questa scena e queste allusioni, si potrebbe forse insistere ancora nell’attri-buire “perit” a Tindaro, presumendo che egli userebbe questa volta “perit” soltanto per ironizzare e irritare di più Egione. Ma i vv. 695-696 (“Pol si istuc faxis, haud sine poena feceris, / Si ille huc rebitet, sicut confido affore”), appena pronunciati da Tindaro e così vicini al v. 699, fanno “perire” completamente questa mia intenzione. Tindaro aspetta con ferma fiducia il ritorno di Filocrate, perciò il significato “andarsene per sempre” [18] non va. In più, è difficile pensare che Tindaro possa usare “perit” con il doppio senso ovviamente negativo per il suo padroncino, che è per lui come un amico e sarà anche il suo salvatore. Non è dunque probabile che da lui a pronunciare “perit” alla fine del v. 699.
Eliminato Tindaro, mi rimane solo Egione. Concentrando l’attenzione su di lui, mi sono reso conto che attribuire “perit” a Egione sarebbe la scelta più logica sia per la scena in questione, sia per tutto il dramma.
Egione, dopo la cattura di suo figlio Filopolemo, ha un solo desiderio: farlo ritornare in casa più presto possibile, sano e salvo. Per questo comincia a comprare i prigionieri per un eventuale scambio contro suo figlio, e ne compra parecchi perché la chance sia più grande. Finalmente Egione ha trovato Filocrate per realizzare il suo progetto. Ma Filocra-te, con un inganno semplice come un gioco di bambino, è sfuggito dalle sue mani. Si può immaginare benissimo quanto grande sia la collera di Egione dopo la scoperta della verità, una verità troppo aspra da sopportare per lui (cfr. i vv. 641-642, 653-658, 670-674, 757-763, fra i quali i vv. 757-763 sono come un riassunto della vita tragica di Egione e il grido doloroso dal profondo del suo cuore; più avanti, i vv. 781-787 ci fanno conoscere meglio il suo stato d’animo).
Prima del v. 699, il v. 686 “Reducem fecisse liberum in patriam ad patrem”, detto da Tindaro, deve già avere fortemente colpito Egione. Fra poco, Aristofonte, svegliato finalmente dal suo sogno, dirà: “In libertate est ad patrem in patria…”. Libertas (liber), pater, patria: queste tre bellissime parole, sentite ancora una volta da Egione, sono per lui invece proprio tre coltellate che colpiscono spietatamente il cuore già troppo insangui-nato di un padre, il cui figlio, l’unico che gli rimane, sta ancora nelle mani nemiche, in balia di un destino incerto (l’altro figlio, che è in realtà proprio Tindaro, gli fu rapito tanti anni prima). Al momento del v. 699, la parola pereo presente nei vv. 682, 683, 688, 690 693 e 694 echeggerebbe di nuovo, soprattutto alle orecchie di Egione. Non sarebbe dunque una sorpresa se Egione, prima che Aristofonte finisca la sua battuta, si lasciasse sfuggire dalla bocca la parola “perit”.
Solo sulla bocca di Egione, “perit” acquisterebbe pienamente tutti i significati che la impregnano. Con “andarsene per sempre”, Egione confermerebbe dolorosamente a Aristofonte, ma piuttosto a sé stesso, la crudele verità: Filocrate è fuggito da suo padre, scomparso nella sua patria [19], scomparso dalla mia vista per sempre! Egione non crede che Filocrate ritorni (chi potrebbe crederci al suo posto?). Se no, la reazione del buon senex non dovrebbe essere così violenta, fino a gettare Tindaro “in latomias lapidarias” (v. 723), con la minaccia di “Sescentoplago nomen indetur tibi” (v. 726), se Tindaro non si decidesse a compiere il lavoro.
Con il significato “perdersi”, Egione confermerebbe l’altro aspetto del fatto: lui ha acquistato Filocrate versando una quantità di denaro (vv. 192-193: “Ibo intro atque intus subducam ratiunculam, / Quantillum argenti mi apud trapezitam siet”). Sfuggire Filocrate, e insieme perdersi i soldi di Egione: così predice anche uno dei lorarii: “[…] At pigeat postea / Nostrum erum, si uos eximat uinclis, / Aut solutos sinat quos argento emerit” (vv. 203-205). Dopo la scoperta della verità, il vecchio, furiosissimo, così esplode con Tindaro: “Quia me meamque rem, quod in te uno fuit, / Tuis scelestis falsidicis fallaciis / Delacerauisti, deartuauistique opes, / Confecisti omnis res ac rationes meas” (vv. 670-673). Egione voleva fare un “commercio” usando Filocrate; adesso quest’ultimo è per lui argentum perduto. Insieme con l’adulescens è perduta anche la speranza del povero vecchio, la salvezza del suo proprio figlio catturato.
Con il significato “morire”, Egione scaglierebbe una maledizione a Filocrate, quasi inconsciamente, poiché pereo nei versi che immediatamente precedono il v. 699 (soprattutto, ripeto, nei vv. 690, 693 e 694) significa sempre “morire” (e in che tono!). Questa maledizione rifletterebbe tutto il mondo sentimentale di Egione: amore paterno, ansietà e dolore dopo la cattura di suo figlio, speranza effimera della salvezza di quest’ul-timo, collera e furia dopo la scoperta dell’inganno, rimprovero pesantissimo fatto a lui stesso per la sua “cecità”, delusione e disperazione per la situazione attuale, preoccupazione per il futuro incerto del figlio… Si parla spesso dei caratteri tragici dei Captivi. Il personaggio più tragico fra tutti quelli messi in scena non è proprio Egione? Quale parola può essere più tragica che pereo, sinonimo per eccellenza di mori e occidere? Visto lo stato d’animo di Egione, penso che il significato “morire” superi “scomparire” e “perdersi” nel gioco di parole (un gioco comico-tragico). Non riuscendo a trovare un termine equivalente in italiano, nella traduzione ho scelto “è morto”.
Se la parola “perit” fosse pronunciata da Egione, si comprenderebbe meglio anche l’altra e l’ultima occorrenza di pereo nei Captivi, cioè nel v. 749, pronunciato appunto da Egione. Questa volta, la formula “peristis” potrebbe essere interpretata come una reminiscenza dei versi precedenti che contengono pereo, forse soprattutto del v. 699. Dopo la scena che ho appena analizzata, la parola pereo (in cui si nasconde la probabile morte di Filopolemo) continuerebbe a risuonare nelle orecchie di Egione fino a diventare un’ossessione. Il vecchio, di solito di buon umore, a questo punto si comporta male con i suoi servi e nel v. 749 li investe addirittura con “peristis” [20].
Con l’attribuzione di “perit” a Egione, la mia analisi sulla reazione di Aristofonte dopo l’intervento rimane la stessa: sentendolo dire così e non avendo più dubbi, Aristofonte esclama: “Bene est…”.
3. Le omissioni e le aggiunte delle notae personarum nei Captivi.
Se vogliamo attribuire “perit” a Egione, dobbiamo ritoccare leggermente la tradizione manoscritta, aggiungendo due notae personarum (notae o nota in poi) nei vv. 699 e 700. Per giustificare queste due aggiunte, mi sembra necessario accennare al problema che riguarda le omissioni e le aggiunte di notae nella tradizione manoscritta dei Captivi. La statistica e l’analisi che seguono sono state fatte sulla base dell’edizione di Ernout che, per quanto riguarda la mia conoscenza, esaminò più esaurientemente degli altri critici questo problema.
Nei Captivi, 47 notae vengono messe fra parentesi angolari dallo studioso francese. Le cinque notae dei vv. 142, 148, 385, 941 e 971 sono trasportate; quella del v. 841 viene messa fra parentesi angolari a causa dell’escluso della fine del v. 840. Lasciando da parte questi sei casi che non si riducono a pure omissioni [21], rimangono altre 41 notae che furono omesse nei codici e osservate dagli emendatori o dagli studiosi.
Fra queste 41 notae (in 38 versi), 22 si trovano già inserite come aggiunta in uno o più codici (vv. 271, 277, 285, 286, 287, 393, 394, 397, 398, 399, 400, 568, 794, 880, 881, 883 (2 notae), 888 (2 notae), 896, 897, 993). Tutte le aggiunte sono attribuibili a B2 (emenda-toris manus del Palatinus Vaticanus), con una sola eccezione, quella del v. 993, dovuta a E2 (Codex Ambrosianus). In più, V2 (Vossianus Leidensis) ha proposto la stessa aggiunta per i vv. 393, 399 e 400. Le altre 19 notae sono messe fra parentesi angolari in seguito alle riattribuzioni fatte dagli studiosi del Rinascimento o di epoche più recenti (vv. 119, 121, 156, 165, 184, 188, 189, 190 (2 notae), 229, 236, 358, 611, 766, 867, 868, 886, 988, 1020).
Fra questi 38 versi in questione, 16 sono ripartiti fra due o più personaggi, come il v. 699 secondo la mia integrazione. Più precisamente, B2 ha collocato una aggiunta di nota alla prima parte (grosso modo) dei versi 285, 398, 880, 883, 888, B2 e V2 alla prima parte (grosso modo) del v. 400; gli altri studiosi alla prima parte (grosso modo) dei versi 189, 190, 867, 868, 1020. B2 ha proposto una aggiunta per la seconda parte (grosso modo) dei vv. 881, 883, 888; gli studiosi successivi dei vv. 188, 190, 236, 611, 988. Si segnalano dunque otto versi (vv. 188, 190, 236, 611, 881, 883, 888, 988) nella cui seconda parte (grosso modo) viene messa una aggiunta di nota. Si noti che per il v. 236, l’attribuzione a Filocrate è discussa fra gli studiosi. Nei vv. 883 e 888 le parti riattribuite a altri personaggi non occupano a rigore la parte finale del verso. Esclusi questi tre versi, rimangono ancora i vv. 188, 190, 611, 881, 988, la cui parte finale è stata riattribuita a un altro personaggio. A questi cinque versi somiglia proprio il v. 699 con la mia integrazione.
Cinque versi soltanto potranno sembrare pochi a qualcuno. Ma in realtà, il problema che riguarda le notae nei Captivi è molto più complicato, poiché oltre queste 47 notae messe fra parentesi angolari, si danno altre 67 notae distribuite in 64 versi che non vengono messe fra parentesi angolari da Ernout, ma che presentano egualmente diversi problemi testuali. Ho classificato queste 67 notae nei sei gruppi seguenti:
1) le notae che sono state attribuite a un altro personaggio, nella maggioranza dei casi da parte degli studiosi (21 notae [22] in 19 versi): 120, 122, 124, 154, 173, 174, 176, 177, 182, 203, 215a, 231 (2 notae), 274 (B2), 284 (B2), 335 (2 notae), 554, 867 (seconda nota), 885, 1028;
2) le notae che sono copiate in certi codici, ma omesse negli altri (24 notae in 23 versi): 182, 218, 381, 428, 429, 446, 447, 534, 584, 587, 592 (2 notae), 598, 619, 662, 664, 928, 954, 955, 958, 961, 1020 (seconda nota), 1022, 1028;
3) le notae che esistevano nei codici, ma che sono state eliminate, nella maggioranza dei casi dagli studiosi (12 notae in 12 versi): 159, 217, 266, 269, 272 (B), 334, 336, 359, 366 (B2, V2, J), 430, 795, 964;
4) le notae che esistono nei codici, ma per le quali c’è divergenza fra gli studiosi circa l’attribuzione delle battute (7 notae in 7 versi): 361, 398 (seconda nota), 613, 616, 618, 640, 1025;
5) le notae che non esistono nei codici e sono state aggiunte da emendatoris manus (3 notae in 3 versi): 541(B2), 751 (V2), 965 (B2) [23];
6) la nota del v. 421. L’attribuzione del verso è attestata nei codici e viene accettata da Ernout, ma respinta da alcuni altri studiosi [24].
Dopo questa faticosa verifica, se mettiamo insieme tutte le notae problematiche, avre-mo un bilancio stupefacente: su un totale di 1036 versi dei Captivi, 105 versi contengono 114 notae che presentono diverse difficoltà testuali [25]. Si può concludere che le omissio-ni e le aggiunte delle notae e la loro attribuzione (o riattribuzione) nei Captivi costituisco-no problemi complessi e meriterebbero una ricerca ancora più approfondita.
Per quanto riguarda la mia integrazione, se voglio attribuire “perit” a Egione, devo riattribuire i versi successivi (vv. 700-702) a Aristofonte. Nell’edizione di Ernout ci sono 23 riattribuzioni allo stesso personaggio, al quale una parte della sua battuta è stata sottratta e attribuita a un altro. Si tratta dei seguenti gruppi di versi: 120-121, 122-123, 154-157 (e sgg.), 173-174 (e sg.), 176-178 (e sgg.), 188-189, 189-190 (e sg.), 203-204 (e sgg.), 214-215b, 231-236 (e sgg.), 270-277, 283-285, 285-287 (e sg.), 334-335 (e sgg.), 393-394 (e sg.), 397-398, 399-400, 867-868, 883 (diviso fra due personaggi), 885-886, 887-888 (e sg.), 896-897, 965-966. Sulla base di questi 23 casi, una quantità assai rilevante e convincente, mi sono deciso a proporre un’attribuzione e riattribuzione per il gruppo dei vv. 699-702.
4. Gli aspetti favorevoli alla mia integrazione.
Se sono riuscito a risolvere in modo accettabile i due problemi appena esaminati, vorrei insistere adesso su alcuni aspetti che sembrano porsi a favore di una qualche proba-bilità della mia integrazione:
1) anzitutto il doppio senso di “perit”. Sappiamo che Plauto è un grande maestro nel gioco di parole. Nei Captivi abbiamo parecchi esempi, come quello di “invocatus” (v. 70), “invocat” (v. 73) e “invocatum” (v. 74);
2) la comicità che nasce dal gioco di parole. In effetti, Egione vorrebbe dire piuttosto “morire”, ma Aristofonte interpreta piuttosto “scomparire”. Il contrasto fra “perit” di Egio-ne e “Bene est” di Aristofonte produrrebbe un certo effetto comico.
3) se si attribuisce “perit” a Egione, il tono di “Bene est” sembra più naturale all’inizio di una battuta (per i vv. 700-702 si tratta di un ripreso di battuta). Per questo ho usato il punto esclamativo;
4) “perit”, “patrem” e “patria” costituiscono un’allitterazione, come nel v. 537;
5) se la parola mancante è “perit”, risulta più spiegabile la corruttela del v. 699. Si tratterebbe di un’aplografia, poiché “perit” si legge già una volta nel v. 690. Per sanare il v. 690, Ernout propose in effetti di integrare un altro “perit”, e cioè, a suo parere, anche la corruttela del v. 690 sarebbe dovuta a un’aplografia [26];
6) l’attribuire l’ultimo piede del v. 699 (con qualsiasi integrazione) a un altro personaggio diverso da Aristofonte spiegherebbe meglio la lacuna del verso. Sembra evidente che uno scriba si sbaglia più facilmente copiando un verso diviso fra due perso-naggi, che non uno compatto.
III. Alcune riflessioni.
Alla fine della discussione, vorrei avanzare alcune riflessioni che non riguardano soltanto il v. 699 dei Captivi. Quando si propone una congettura o un’integrazione, non si dovrebbe dimenticare il genere letterario del testo sotto esame. Le opere teatrali classiche come i Captivi sono state create dai poeti non per essere stampate su un libro, per restare una cosa morta quale la “vede” un lettore moderno, ma per essere messe in scena, in teatro, davanti al pubblico. Non basterebbero le sole analisi linguistiche per trovare qualche congettura su un verso come il v. 699 dei Captivi, poiché in esso si nascondono tanti pensieri, tanti sentimenti di personaggi che sfilano con i propri caratteri ben scolpiti. Senza essere guidato da tale consapevolezza, non avrei potuto pensare a una parola come “perit” a colmare la lacuna del v. 699, e più probabilmente, non mi sarei avventurato su un sentiero tanto insidioso.
Bibliografia:
I. Codici plautini[28]: B = Palatinus Vaticanus (Pal. Lat. 1615), saec. x-xi. Bibliotheca Apostolica Vaticana , Città del Vaticano. D = Vaticanus (Vat. Lat. 3870), saec. x-xi. Bibliotheca Apostolica Vaticana , Città del Vaticano.
II. Edizioni plautine: F. H. Bothe, Aug. Taurinorum 1822-1823; N. E. Angelio, Venezia 1847; A. Fleckeisen, Lipsiae 1850-1851; F. Ritschelius (et G. Loewe, G. Goetz, F. Schoell), Lipsiae 1871-1894; I. L. Ussing, Hauniae 1875-1896; M. Nisard, Paris 1885; G. Goetz-F. Schoell, Lipsiae 1892-1907; F. Leo, Berolini 1895-1896; W. M. Lindsay, Oxonii 1904; A. Ernout, Paris 1952-1961; P. Nixon, London-Cambridge (Mass.) 1959-1963; G. Augello, Torino 1968-1972; E. Paratore, Roma 20043.
III. Edizioni dei Captivi: E. Cocchia, Torino 1886; W. M. Lindsay, Oxford 18922; C. Pascal, Aug. Taurinorum [etc.] [1917]; J. P. Waltzing, Paris 1920; B. Lavagnini, Firenze 1926; L. Havet, Paris 1932; C. Questa-G. Paduano-M. Scàndola, Milano 20002.
IV. Altri strumenti di ricerca: F. Gaffiot, Dictionnaire Illustré Latin-Français. Paris 1934; F. Gaffiot, Dizionario Illustrato Latino-Italiano. Padova 1973; G. Lodge, Lexicon Plautinum. Lipsiae 1904-1933; Oxford Latin Dictionary. Oxford 1968; E. Paratore, Plauto. Firenze 1961; C. Pavanetto, Elementa Linguae et Grammaticae Latinae. Roma 20015; C. Questa, Introduzione alla Metrica di Plauto. Bologna 1967.
Note:
* Infinitamente l’autore ringrazia la Biblioteca Apostolica Vaticana di avergli accordato gentilmente il permesso di consultare i due preziosissimi codici plautini B e D.
[1] A. Ernout (ed.), Plaute. Comédies, Paris 1932-1961, t. ii, p. 128 bis.
[2] Cfr. F. Schoell (ed.), T. Macci Plauti Captivi, Lipsiae 1887, p. 125, la nota al v. 700. Il volume di Schoell fa parte dell’edizione di F. Ritschelius (et socii), tt. i-iv, Lipsiae 1871-1894.
[3] J. P. Waltzing (ed.), Plaute. Les Captifs, Paris 1920, p. 93.
[4] Cfr. F. Schoell, ed. cit., p. 61.
[5] Cfr. G. Lodge, Lexicon Plautinum, Lipsiae 1904-1933, t. i, p. 424, p. 426.
[6] Cfr. G. Goetz - F. Schoell (ed.), T. Macci Plauti Comoediae, Lipsiae 1892-1907, t. ii, p. 92.
[7] J. P. Waltzing, ed. cit., p. 58.
[8] G. Augello (ed.), Le Commedie di Tito Maccio Plauto, Torino 1968-1972, t. i, p. 498.
[9] Nella mia integrazione “perit” è la forma contratta di “periit”, il tempo è cioè perfetto.
[10] L’uso della virgola dopo “patrem” si vede già nelle edizioni di N. E. Angelio (Venezia 1847) e di M. Nisard (Paris 1885).
[11] Per quanto riguarda il doppio senso che esisterebbe nella parola “perit”, vedi infra.
[12] Cfr. G. Lodge, op. cit., t. ii, pp. 311-313.
[13] Cfr. Oxford Latin Dictionary, Oxford 1968, p. 1336.
[14] Tutti i versi citati seguono l’edizione di Ernout.
[15] Cfr. la nota 10.
[16] F. Gaffiot, Dictionnaire Latin-Français, Paris 1934, p. 1145.
[17] Oxford Latin Dictionary, p. 1336.
[18] F. Gaffiot, Dizionario Illustrato Latino-Italiano, Edizione italiana a cura di I. Pin, I. Pinto, C. Sorge, Padova 1973, p. 1050.
[19] Si ricordino il primo emistichio del v. 400: “Meus mihi, suus cuique est carus”, e il v. 640: “[…] Vbi ego minime atque ipsus se uolt maxume”, pronunciati tutti e due da Egione.
[20] Per la personalità di Egione cfr. i vv. 325, 328 e altri; per il suo sviluppo psicologico cfr. i vv. 756, 764-765.
[21] Anche se non si tratta qui di una pura omissione di nota, la trasposizione significa sempre una riattribuzione (vv. 142, 148, 941, 971) o una divergenza di attribuzione (v. 385).
[22] Quasi tutte le notae di questo genere sono stampate in corsivo nell’edizione di Ernout.
[23] Si tratterebbe di errori di stampa. Queste tre notae dovrebbero mettersi fra parentesi angolari, come negli altri casi autentici. “Una certa trascuratezza redazionale” nell’edizione di Ernout è già stata osservata da Augello (cfr. G. Augello, ed. cit., t. i, p. 47).
[24] Si vede qualche volta in altre edizioni una nota messa fra parentesi angolari, ma non da Ernout. Prendo qui un solo esempio: il v. 171 “Hoc illum me mutare confido † fore” è corrotto. Lindsay attribuì a Ergasilo la parte finale del verso “confido fore”, un caso autentico a quello del v. 421.
[25] Nei vv. 398, 867 e 1020 ci sono 2 notae, una messa fra parentesi angolari da Ernout, un’altra non.
[26] Cfr. A. Ernout, ed. cit., t. ii, p. 128 bis.
Li Song-Yang
Sommario: Il verso Capt. 699 è mutilo. Basandosi sull’uso di pereo in Plauto, e sull’alta frequenza della parola nel contesto immediato del v. 699, l’autore ha proposto una nuova integrazione congetturale con perit (forma contratta di periit). Gran parte dell’articolo è dedicato alle analisi sulla trama dei Captivi, sul carattere e soprattutto sulla psicologia dei tre personaggi in questione, per provare che la battuta perit sia pronunciata da Egione, anziché da Aristofonte o da Tindaro. Una minuziosa disamina sulla tradizione manoscritta dei Captivi si è effettuata per giustificare l’aggiunta di due notae personarum nel nuovo emendamento. Infine, l’autore ha esposto gli aspetti favorevoli alla sua proposta conget-turale: il gioco di parole con il doppio senso di pereo; la comicità derivata dal contrasto fra perit e Bene est; la figura retorica (allitterazione); la corruzione più facile da spiegare con perit, ecc.
Abstract: The line Capt. 699 is mutilated. Following the use of the word pereo in Plautus, and its high frequency in the immediate context of the l. 699, the author has proposed a new conjectural integration with perit (contracted form of periit). The main part of the article is dedicated to the analysis of the play’s plot, the characteristics and especially the psychological states of the three characters on stage. It will be proved that perit should be said by Hegio, not Aristophontes or Tyndarus. A rather detailed examination of the Captivi’s manuscript traditions will show it justifiable the addition of the two notae personarum in the new textual emendation. The final section of the paper will discuss several aspects in support of the author’s argument: the pun of pereo; the comicality derived from the contrast between perit and Bene est; the rhetorical figure (alliteration); and the textual corruption that should be more easily explained with perit.
I. Status quaestionis.
Il verso 699 dei Captivi è mutilo. Trovandosi alla fine del verso la lacuna ci priva dell’ultimo piede del senario giambico. Nell’edizione di Ernout così si leggono i vv. 699-700:
In libertate est ad patrem in patria _.
Bene est; nec quisquam est mi aeque melius cui uelim [1]
L’emendamento più fortunato nel passato risulta la trasposizione di “Bene est” alla fine del v. 699, con diverse integrazioni per il v. 700. Risale già a Pylades (1506) e J. Camera-rius (1552) la tradizione di questo trattamento [2], che fu in seguito accettato da numerosi studiosi, come F. H. Bothe, K. E. Geppert, A. Fleckeisen, J. Brix, J. L. Ussing, F. Leo e W. M. Lindsay. La tradizione continua fino ai primi decenni del Novecento, con J. P. Waltzing e L. Havet, per esempio. Nel suo ricco commento Waltzing ha proposto la seguente spiegazione: “Dans les mss, bene est commence le vers suivant; mais les vers 691 à 725 y sont mal divisés. Bene est est nécessaire pour compléter le v. 699. Il serait difficile d’expliquer la chute des mots domo ou domi ou redux ou procul, qu’on a proposé d’ajouter. Au v. suivant, qui est égalmente incomplet sans Bene est, on peut expliquer la chute de usquam devant quisquam par les finales semblables dans la tournure fréquente: Nec usquam quisquam” [3].
Un altro emendamento assai fortunato è rappresentato dall’integrazione con “domo”, proposta da F. Schoell [4]. A questa ipotesi non pochi studiosi hanno dato il loro consen-so. G. Lodge l’accolse anche nel suo monumentale Lexicon Plautinum [5], in cui si constata la frequenza altissima di domus in Plauto. Tuttavia, sembra che neanche Schoell fosse sicuro della sua proposta, poiché nell’edizione del 1892, insieme con G. Goetz, egli lasciò la lacuna tale quale [6].
Grazie a Waltzing ho potuto conoscere altre tre integrazioni congetturali: “domi Raman; redux Speijer; fort. procul Niem.” [7].
Altri commentatori del Novecento, come Ernout, preferirono lasciare semplicemente la lacuna invece di proporre nuove integrazioni. E con lui si ricordano C. Pascal, B. Lavagnini, G. Augello e E. Paratore. Augello così spiega la sua scelta: l’integrazione di Schoell “ci pare […] poco sicura. […] Il Lindsay pensa che il testo si sia guastato perché bene est passò all’inizio del v. 700. Ma preferiamo seguire l’Ernout, che non tocca la tradizione manoscritta”[8].
II. Una nuova proposta di integrazione.
Dopo una lunga e minuziosa ricerca, mi chiedo se la parte mancante del v. 699 non debba essere “pĕrīt” [9], e se la battuta non debba essere posta sulla bocca di Egione. La mia integrazione in modo completo si presenterebbe allora così:
AR. In libertate est ad… patrem, in patria… [10]
<HE.> <Perit>!
<AR.> Bene est! nec quisquam est mi aeque melius cui uelim.
In italiano si potrebbe tradurre (drammatizzando):
Aristofonte (viene a conoscenza della verità all’improvviso): (Il mio amico Filocrate)
è libero da suo padre (volge alternativamente lo sguardoverso Egione e Tindaro
per chiedere una conferma definitiva)… e in patria…
Egione (rivolto a Aristofonte, con tono malvagio e doloroso): È morto! [11]
Aristofonte (con grande gioia): Bene! Non c’è persona a cui mi sento più affezionato.
Il mio proposito è ora quello di dimostrare la probabilità di questa nuova integrazione. La mia disamina distribuisce in quattro parti: 1. L’uso di pereo in Plauto; 2. L’attribuzione di “perit”; 3. Le omissioni e le aggiunte delle notae personarum nei Captivi; 4. Gli aspetti favorevoli alla mia integrazione.
1. L’uso di pereo in Plauto.
Il verbo pereo ha una frequenza altissima in Plauto, e lo si riscontra in tutti i suoi significati [12]. In Oxford Latin Dictionary, Plauto è lo scrittore più citato sotto il lemma di pereo [13]. Questo verbo nei Captivi si presenta nove volte nei versi seguenti [14]:
v. 537: Vtinam te di prius perderent quam periisti e patria tua
v. 635: … Pereo probe
v. 682: Dum ne ob malefacta peream, parui <ex>istumo
v. 683: Si ego hic peribo, ast ille ut dixit non redit
v. 688: Praeoptauisse quam is periret ponere
v. 690: Qui per uirtutem † perit at, non interit
v. 693: Vel te interiisse uel periisse praedicent
v. 694: Dum pereas, nihil interdico † dicant uiuere
v. 749: Peristis, ni istunc iam e conspectu abducitis
Nel v. 537 pereo significa “scomparire”; nel v. 635, “perdersi”; in tutti gli altri sette versi vale “morire”. Nella mia integrazione “perit” si presenterebbe con tutti questi tre significati principali, cioè in esso esisterebbe un gioco di parole.
2. L’attribuzione di “perit”.
Il v. 699 esce dalla bocca di Aristofonte, un personaggio che non ha una mente acuta. Figurarsi dunque se è capace di architettare un gioco di parole. Nella maggior parte dell’atto III, scena IV, egli ha cercato di rivelare a Egione la vera identità di Tindaro, senza rendersi conto della stupidità della sua intenzione e della conseguenza catastrofica. Quindi il concerto semantico di “perit” nella mia integrazione non corrisponderebbe bene al carattere di Aristofonte. In più, il gioco di parole che esisterebbe in “perit” suonerebbe con un risvolto piuttosto cattivo. Aristofonte è “amicus […] a puero puer” (v. 645) di Filocrate. Non è dunque probabile che “perit” esca dalla sua bocca.
Per la mia analisi, oltre al carattere di Aristofonte, contano anche (e di più) le sue reazioni psicologiche. Grazie al “contributo” di Aristofonte, Egione capisce che davanti a sé è un falso adulescens prognatus genere summo (cfr. vv. 169-170). Portato via da una grandissima furia, egli comincia a fare i conti con Tindaro. Dalla fine del v. 648 fino al v. 696, si articola soltanto il dialogo fra Egione e Tindaro, e Aristofonte non dice nemmeno una parola. Durante tutto questo tempo, che cosa farebbe Aristofonte sulla scena? Sta ascoltando Egione e Tindaro, certamente, ma sta anche riflettendo su tutto ciò che è successo. E sì, ci vuole un po’ di tempo perché Aristofonte capisca qualcosa. Solo fino al v. 697, rendendosi conto, finalmente ma già troppo tardi, della fuga di Filocrate, Aristofonte esprime così la sua gioia: “Pro di immortales! nunc ego teneo, nunc scio / Quid hoc sit negoti; meus sodalis Philocrates / In libertate est ad patrem in patria…”. Ma dopo tutta questa storia, quale potrebbe essere lo stato mentale di Aristofonte? Quali sarebbero i suoi pensieri? A mio parere, Aristofonte, in questo momento, è avvolto ancora da un gran buio. Quando l’attore recita il v. 699, sotto la regia di Plauto, senz’altro, non sarebbe impensabile che egli lo recitasse con un ritmo lento, un tono incerto, un modo esitante, per esprimere lo choc da lui subìto, la conseguente confusione e i dubbi che rimangono ancora nella sua mente (perciò ho messo una virgola dopo “patrem” per descrivere meglio le reazioni psicologiche del personaggio [15]). In questo caso, prima che Aristofonte fi-nisca il v. 699, un altro personaggio interverrebbe e farebbe sentire “perit”, per confer-margli che Filocrate è già scomparso. In tale prospettiva, dovrei attribuire “perit” a un personaggio diverso da Aristofonte.
Ma a chi?
In un primo tempo avevo attribuito “perit” a Tindaro. Il mio ragionamento era cominciato con l’analisi dell’uso di pereo nei Captivi. Aristofonte non dice mai questa parola (questo fatto potrebbe essere un motivo in più per non attribuirgliela). Fra i nove versi che contengono pereo, sei sono pronunciati da Tindaro (vv. 537, 635, 682, 683, 688, 690), gli altri tre da Egione (vv. 693, 694, 749). Ma i vv. 693 e 694 fanno parte della replica di Egione al v. 690 di Tindaro. Quindi l’uso di pereo nei Captivi riguarda quasi esclusivamente Tindaro.
Ma il motivo più importante per il quale avevo pensato di attribuire “perit” a Tindaro è che, solo dalla bocca di Tindaro, così pensavo, il tono di “perit” avrebbe assunto una coloritura ironica. Prima del v. 699, e a esso assai vicino, Egione e Tindaro hanno appena pronunciato insieme sei volte pereo nel senso di “morire” (vv. 682, 683, 688, 690, 693, 694). In 13 versi successivi si legge sei volte la stessa parola, una frequenza così alta è rarissima nei Captivi (ma si capisce che è adesso il momento di vita o di “morte” per Tindaro). Proprio questa alta frequenza mi ha fatto pensare che forse Tindaro avrebbe potuto usare pereo anche alla fine del v. 699, ma nel senso di “scomparire” invece che di “morire”: Filocrate è ritornato da suo padre, è scomparso in patria. Con “perit” Tindaro vorrebbe ovviamente ironizzare su Egione che, ricordandosi dei vv. 690, 693 e 694, avrebbe motivo di arrabbiarsi maggiormente. L’effetto voluto da Tindaro.
Pronunciata da Tindaro, la parola “perit” potrebbe inoltre essere anche un’eco lontana del v. 537. È vero che il v. 537 è una maledizione fatta da Tindaro e “periisti” si riferisce a Aristofonte, ma non sarebbe sbagliato dire che perire e patria è il loro destino comune: insieme partiti dalla patria, insieme catturati da mani nemiche, insieme venduti dal questore, insieme comprati da Egione. Così detto, il v. 537 potrebbe essere interpretato anche come una lamentazione per tutti loro. I vv. 537 e 699, tutti e due usciti dalla bocca di Tindaro, si corrispondono e costituiscono una sintesi della trama, un confronto delle situazioni cambiate: prima, (tutti) perire e patria, adesso, (Filocrate) perire in patria. Una specie di grande inclusione.
Con “perit”, Tindaro, sempre fiero delle sue azioni virtuose, conferma a Aristofonte la liberazione di Filocrate, il trionfo del loro inganno. L’intervento di Tindaro potrebbe essere anche uno dei suoi ultimi attacchi a Egione prima della sua rovina definitiva, non-ché un rimprovero a Aristofonte: “Guarda che bella cosa hai combinato, imbecille!” Comprendendo il vero significato di “perit” e non avendo più dubbi, Aristofonte esclama con gioia: “Bene est! nec quisquam est mi aeque melius cui uelim”.
Ma un’eccessiva fiducia accordata alle cifre statistiche mi aveva fatto dimenticare per un certo tempo che la letteratura non è matematica. Dopo un’analisi più approfondita sul testo intero dei Captivi, mi sono reso conto che l’attribuzione di “perit” a Tindaro non fornisce la spiegazione più convincente.
Pereo significa “scomparire”, nel senso di “s’en aller tout à fait” [16], “vanish, disappear” [17]. Ma Tindaro non penserebbe veramente che Filocrate non sarebbe mai più tornato a salvarlo. Il contrario. Nella scena di addio (atto II, scena III), Tindaro, con le sue geniali allusioni (cfr. soprattutto i vv. 401-413, 429-448), ci fa misurare concretamente la fiducia che egli ripone in Filocrate e la sua speranza nel ritorno di questi, e addirittura la probabilità di essere liberato dal padre di Filocrate come compenso per le sue azioni virtuose.
Malgrado questa scena e queste allusioni, si potrebbe forse insistere ancora nell’attri-buire “perit” a Tindaro, presumendo che egli userebbe questa volta “perit” soltanto per ironizzare e irritare di più Egione. Ma i vv. 695-696 (“Pol si istuc faxis, haud sine poena feceris, / Si ille huc rebitet, sicut confido affore”), appena pronunciati da Tindaro e così vicini al v. 699, fanno “perire” completamente questa mia intenzione. Tindaro aspetta con ferma fiducia il ritorno di Filocrate, perciò il significato “andarsene per sempre” [18] non va. In più, è difficile pensare che Tindaro possa usare “perit” con il doppio senso ovviamente negativo per il suo padroncino, che è per lui come un amico e sarà anche il suo salvatore. Non è dunque probabile che da lui a pronunciare “perit” alla fine del v. 699.
Eliminato Tindaro, mi rimane solo Egione. Concentrando l’attenzione su di lui, mi sono reso conto che attribuire “perit” a Egione sarebbe la scelta più logica sia per la scena in questione, sia per tutto il dramma.
Egione, dopo la cattura di suo figlio Filopolemo, ha un solo desiderio: farlo ritornare in casa più presto possibile, sano e salvo. Per questo comincia a comprare i prigionieri per un eventuale scambio contro suo figlio, e ne compra parecchi perché la chance sia più grande. Finalmente Egione ha trovato Filocrate per realizzare il suo progetto. Ma Filocra-te, con un inganno semplice come un gioco di bambino, è sfuggito dalle sue mani. Si può immaginare benissimo quanto grande sia la collera di Egione dopo la scoperta della verità, una verità troppo aspra da sopportare per lui (cfr. i vv. 641-642, 653-658, 670-674, 757-763, fra i quali i vv. 757-763 sono come un riassunto della vita tragica di Egione e il grido doloroso dal profondo del suo cuore; più avanti, i vv. 781-787 ci fanno conoscere meglio il suo stato d’animo).
Prima del v. 699, il v. 686 “Reducem fecisse liberum in patriam ad patrem”, detto da Tindaro, deve già avere fortemente colpito Egione. Fra poco, Aristofonte, svegliato finalmente dal suo sogno, dirà: “In libertate est ad patrem in patria…”. Libertas (liber), pater, patria: queste tre bellissime parole, sentite ancora una volta da Egione, sono per lui invece proprio tre coltellate che colpiscono spietatamente il cuore già troppo insangui-nato di un padre, il cui figlio, l’unico che gli rimane, sta ancora nelle mani nemiche, in balia di un destino incerto (l’altro figlio, che è in realtà proprio Tindaro, gli fu rapito tanti anni prima). Al momento del v. 699, la parola pereo presente nei vv. 682, 683, 688, 690 693 e 694 echeggerebbe di nuovo, soprattutto alle orecchie di Egione. Non sarebbe dunque una sorpresa se Egione, prima che Aristofonte finisca la sua battuta, si lasciasse sfuggire dalla bocca la parola “perit”.
Solo sulla bocca di Egione, “perit” acquisterebbe pienamente tutti i significati che la impregnano. Con “andarsene per sempre”, Egione confermerebbe dolorosamente a Aristofonte, ma piuttosto a sé stesso, la crudele verità: Filocrate è fuggito da suo padre, scomparso nella sua patria [19], scomparso dalla mia vista per sempre! Egione non crede che Filocrate ritorni (chi potrebbe crederci al suo posto?). Se no, la reazione del buon senex non dovrebbe essere così violenta, fino a gettare Tindaro “in latomias lapidarias” (v. 723), con la minaccia di “Sescentoplago nomen indetur tibi” (v. 726), se Tindaro non si decidesse a compiere il lavoro.
Con il significato “perdersi”, Egione confermerebbe l’altro aspetto del fatto: lui ha acquistato Filocrate versando una quantità di denaro (vv. 192-193: “Ibo intro atque intus subducam ratiunculam, / Quantillum argenti mi apud trapezitam siet”). Sfuggire Filocrate, e insieme perdersi i soldi di Egione: così predice anche uno dei lorarii: “[…] At pigeat postea / Nostrum erum, si uos eximat uinclis, / Aut solutos sinat quos argento emerit” (vv. 203-205). Dopo la scoperta della verità, il vecchio, furiosissimo, così esplode con Tindaro: “Quia me meamque rem, quod in te uno fuit, / Tuis scelestis falsidicis fallaciis / Delacerauisti, deartuauistique opes, / Confecisti omnis res ac rationes meas” (vv. 670-673). Egione voleva fare un “commercio” usando Filocrate; adesso quest’ultimo è per lui argentum perduto. Insieme con l’adulescens è perduta anche la speranza del povero vecchio, la salvezza del suo proprio figlio catturato.
Con il significato “morire”, Egione scaglierebbe una maledizione a Filocrate, quasi inconsciamente, poiché pereo nei versi che immediatamente precedono il v. 699 (soprattutto, ripeto, nei vv. 690, 693 e 694) significa sempre “morire” (e in che tono!). Questa maledizione rifletterebbe tutto il mondo sentimentale di Egione: amore paterno, ansietà e dolore dopo la cattura di suo figlio, speranza effimera della salvezza di quest’ul-timo, collera e furia dopo la scoperta dell’inganno, rimprovero pesantissimo fatto a lui stesso per la sua “cecità”, delusione e disperazione per la situazione attuale, preoccupazione per il futuro incerto del figlio… Si parla spesso dei caratteri tragici dei Captivi. Il personaggio più tragico fra tutti quelli messi in scena non è proprio Egione? Quale parola può essere più tragica che pereo, sinonimo per eccellenza di mori e occidere? Visto lo stato d’animo di Egione, penso che il significato “morire” superi “scomparire” e “perdersi” nel gioco di parole (un gioco comico-tragico). Non riuscendo a trovare un termine equivalente in italiano, nella traduzione ho scelto “è morto”.
Se la parola “perit” fosse pronunciata da Egione, si comprenderebbe meglio anche l’altra e l’ultima occorrenza di pereo nei Captivi, cioè nel v. 749, pronunciato appunto da Egione. Questa volta, la formula “peristis” potrebbe essere interpretata come una reminiscenza dei versi precedenti che contengono pereo, forse soprattutto del v. 699. Dopo la scena che ho appena analizzata, la parola pereo (in cui si nasconde la probabile morte di Filopolemo) continuerebbe a risuonare nelle orecchie di Egione fino a diventare un’ossessione. Il vecchio, di solito di buon umore, a questo punto si comporta male con i suoi servi e nel v. 749 li investe addirittura con “peristis” [20].
Con l’attribuzione di “perit” a Egione, la mia analisi sulla reazione di Aristofonte dopo l’intervento rimane la stessa: sentendolo dire così e non avendo più dubbi, Aristofonte esclama: “Bene est…”.
3. Le omissioni e le aggiunte delle notae personarum nei Captivi.
Se vogliamo attribuire “perit” a Egione, dobbiamo ritoccare leggermente la tradizione manoscritta, aggiungendo due notae personarum (notae o nota in poi) nei vv. 699 e 700. Per giustificare queste due aggiunte, mi sembra necessario accennare al problema che riguarda le omissioni e le aggiunte di notae nella tradizione manoscritta dei Captivi. La statistica e l’analisi che seguono sono state fatte sulla base dell’edizione di Ernout che, per quanto riguarda la mia conoscenza, esaminò più esaurientemente degli altri critici questo problema.
Nei Captivi, 47 notae vengono messe fra parentesi angolari dallo studioso francese. Le cinque notae dei vv. 142, 148, 385, 941 e 971 sono trasportate; quella del v. 841 viene messa fra parentesi angolari a causa dell’escluso della fine del v. 840. Lasciando da parte questi sei casi che non si riducono a pure omissioni [21], rimangono altre 41 notae che furono omesse nei codici e osservate dagli emendatori o dagli studiosi.
Fra queste 41 notae (in 38 versi), 22 si trovano già inserite come aggiunta in uno o più codici (vv. 271, 277, 285, 286, 287, 393, 394, 397, 398, 399, 400, 568, 794, 880, 881, 883 (2 notae), 888 (2 notae), 896, 897, 993). Tutte le aggiunte sono attribuibili a B2 (emenda-toris manus del Palatinus Vaticanus), con una sola eccezione, quella del v. 993, dovuta a E2 (Codex Ambrosianus). In più, V2 (Vossianus Leidensis) ha proposto la stessa aggiunta per i vv. 393, 399 e 400. Le altre 19 notae sono messe fra parentesi angolari in seguito alle riattribuzioni fatte dagli studiosi del Rinascimento o di epoche più recenti (vv. 119, 121, 156, 165, 184, 188, 189, 190 (2 notae), 229, 236, 358, 611, 766, 867, 868, 886, 988, 1020).
Fra questi 38 versi in questione, 16 sono ripartiti fra due o più personaggi, come il v. 699 secondo la mia integrazione. Più precisamente, B2 ha collocato una aggiunta di nota alla prima parte (grosso modo) dei versi 285, 398, 880, 883, 888, B2 e V2 alla prima parte (grosso modo) del v. 400; gli altri studiosi alla prima parte (grosso modo) dei versi 189, 190, 867, 868, 1020. B2 ha proposto una aggiunta per la seconda parte (grosso modo) dei vv. 881, 883, 888; gli studiosi successivi dei vv. 188, 190, 236, 611, 988. Si segnalano dunque otto versi (vv. 188, 190, 236, 611, 881, 883, 888, 988) nella cui seconda parte (grosso modo) viene messa una aggiunta di nota. Si noti che per il v. 236, l’attribuzione a Filocrate è discussa fra gli studiosi. Nei vv. 883 e 888 le parti riattribuite a altri personaggi non occupano a rigore la parte finale del verso. Esclusi questi tre versi, rimangono ancora i vv. 188, 190, 611, 881, 988, la cui parte finale è stata riattribuita a un altro personaggio. A questi cinque versi somiglia proprio il v. 699 con la mia integrazione.
Cinque versi soltanto potranno sembrare pochi a qualcuno. Ma in realtà, il problema che riguarda le notae nei Captivi è molto più complicato, poiché oltre queste 47 notae messe fra parentesi angolari, si danno altre 67 notae distribuite in 64 versi che non vengono messe fra parentesi angolari da Ernout, ma che presentano egualmente diversi problemi testuali. Ho classificato queste 67 notae nei sei gruppi seguenti:
1) le notae che sono state attribuite a un altro personaggio, nella maggioranza dei casi da parte degli studiosi (21 notae [22] in 19 versi): 120, 122, 124, 154, 173, 174, 176, 177, 182, 203, 215a, 231 (2 notae), 274 (B2), 284 (B2), 335 (2 notae), 554, 867 (seconda nota), 885, 1028;
2) le notae che sono copiate in certi codici, ma omesse negli altri (24 notae in 23 versi): 182, 218, 381, 428, 429, 446, 447, 534, 584, 587, 592 (2 notae), 598, 619, 662, 664, 928, 954, 955, 958, 961, 1020 (seconda nota), 1022, 1028;
3) le notae che esistevano nei codici, ma che sono state eliminate, nella maggioranza dei casi dagli studiosi (12 notae in 12 versi): 159, 217, 266, 269, 272 (B), 334, 336, 359, 366 (B2, V2, J), 430, 795, 964;
4) le notae che esistono nei codici, ma per le quali c’è divergenza fra gli studiosi circa l’attribuzione delle battute (7 notae in 7 versi): 361, 398 (seconda nota), 613, 616, 618, 640, 1025;
5) le notae che non esistono nei codici e sono state aggiunte da emendatoris manus (3 notae in 3 versi): 541(B2), 751 (V2), 965 (B2) [23];
6) la nota del v. 421. L’attribuzione del verso è attestata nei codici e viene accettata da Ernout, ma respinta da alcuni altri studiosi [24].
Dopo questa faticosa verifica, se mettiamo insieme tutte le notae problematiche, avre-mo un bilancio stupefacente: su un totale di 1036 versi dei Captivi, 105 versi contengono 114 notae che presentono diverse difficoltà testuali [25]. Si può concludere che le omissio-ni e le aggiunte delle notae e la loro attribuzione (o riattribuzione) nei Captivi costituisco-no problemi complessi e meriterebbero una ricerca ancora più approfondita.
Per quanto riguarda la mia integrazione, se voglio attribuire “perit” a Egione, devo riattribuire i versi successivi (vv. 700-702) a Aristofonte. Nell’edizione di Ernout ci sono 23 riattribuzioni allo stesso personaggio, al quale una parte della sua battuta è stata sottratta e attribuita a un altro. Si tratta dei seguenti gruppi di versi: 120-121, 122-123, 154-157 (e sgg.), 173-174 (e sg.), 176-178 (e sgg.), 188-189, 189-190 (e sg.), 203-204 (e sgg.), 214-215b, 231-236 (e sgg.), 270-277, 283-285, 285-287 (e sg.), 334-335 (e sgg.), 393-394 (e sg.), 397-398, 399-400, 867-868, 883 (diviso fra due personaggi), 885-886, 887-888 (e sg.), 896-897, 965-966. Sulla base di questi 23 casi, una quantità assai rilevante e convincente, mi sono deciso a proporre un’attribuzione e riattribuzione per il gruppo dei vv. 699-702.
4. Gli aspetti favorevoli alla mia integrazione.
Se sono riuscito a risolvere in modo accettabile i due problemi appena esaminati, vorrei insistere adesso su alcuni aspetti che sembrano porsi a favore di una qualche proba-bilità della mia integrazione:
1) anzitutto il doppio senso di “perit”. Sappiamo che Plauto è un grande maestro nel gioco di parole. Nei Captivi abbiamo parecchi esempi, come quello di “invocatus” (v. 70), “invocat” (v. 73) e “invocatum” (v. 74);
2) la comicità che nasce dal gioco di parole. In effetti, Egione vorrebbe dire piuttosto “morire”, ma Aristofonte interpreta piuttosto “scomparire”. Il contrasto fra “perit” di Egio-ne e “Bene est” di Aristofonte produrrebbe un certo effetto comico.
3) se si attribuisce “perit” a Egione, il tono di “Bene est” sembra più naturale all’inizio di una battuta (per i vv. 700-702 si tratta di un ripreso di battuta). Per questo ho usato il punto esclamativo;
4) “perit”, “patrem” e “patria” costituiscono un’allitterazione, come nel v. 537;
5) se la parola mancante è “perit”, risulta più spiegabile la corruttela del v. 699. Si tratterebbe di un’aplografia, poiché “perit” si legge già una volta nel v. 690. Per sanare il v. 690, Ernout propose in effetti di integrare un altro “perit”, e cioè, a suo parere, anche la corruttela del v. 690 sarebbe dovuta a un’aplografia [26];
6) l’attribuire l’ultimo piede del v. 699 (con qualsiasi integrazione) a un altro personaggio diverso da Aristofonte spiegherebbe meglio la lacuna del verso. Sembra evidente che uno scriba si sbaglia più facilmente copiando un verso diviso fra due perso-naggi, che non uno compatto.
III. Alcune riflessioni.
Alla fine della discussione, vorrei avanzare alcune riflessioni che non riguardano soltanto il v. 699 dei Captivi. Quando si propone una congettura o un’integrazione, non si dovrebbe dimenticare il genere letterario del testo sotto esame. Le opere teatrali classiche come i Captivi sono state create dai poeti non per essere stampate su un libro, per restare una cosa morta quale la “vede” un lettore moderno, ma per essere messe in scena, in teatro, davanti al pubblico. Non basterebbero le sole analisi linguistiche per trovare qualche congettura su un verso come il v. 699 dei Captivi, poiché in esso si nascondono tanti pensieri, tanti sentimenti di personaggi che sfilano con i propri caratteri ben scolpiti. Senza essere guidato da tale consapevolezza, non avrei potuto pensare a una parola come “perit” a colmare la lacuna del v. 699, e più probabilmente, non mi sarei avventurato su un sentiero tanto insidioso.
Bibliografia:
I. Codici plautini[28]: B = Palatinus Vaticanus (Pal. Lat. 1615), saec. x-xi. Bibliotheca Apostolica Vaticana , Città del Vaticano. D = Vaticanus (Vat. Lat. 3870), saec. x-xi. Bibliotheca Apostolica Vaticana , Città del Vaticano.
II. Edizioni plautine: F. H. Bothe, Aug. Taurinorum 1822-1823; N. E. Angelio, Venezia 1847; A. Fleckeisen, Lipsiae 1850-1851; F. Ritschelius (et G. Loewe, G. Goetz, F. Schoell), Lipsiae 1871-1894; I. L. Ussing, Hauniae 1875-1896; M. Nisard, Paris 1885; G. Goetz-F. Schoell, Lipsiae 1892-1907; F. Leo, Berolini 1895-1896; W. M. Lindsay, Oxonii 1904; A. Ernout, Paris 1952-1961; P. Nixon, London-Cambridge (Mass.) 1959-1963; G. Augello, Torino 1968-1972; E. Paratore, Roma 20043.
III. Edizioni dei Captivi: E. Cocchia, Torino 1886; W. M. Lindsay, Oxford 18922; C. Pascal, Aug. Taurinorum [etc.] [1917]; J. P. Waltzing, Paris 1920; B. Lavagnini, Firenze 1926; L. Havet, Paris 1932; C. Questa-G. Paduano-M. Scàndola, Milano 20002.
IV. Altri strumenti di ricerca: F. Gaffiot, Dictionnaire Illustré Latin-Français. Paris 1934; F. Gaffiot, Dizionario Illustrato Latino-Italiano. Padova 1973; G. Lodge, Lexicon Plautinum. Lipsiae 1904-1933; Oxford Latin Dictionary. Oxford 1968; E. Paratore, Plauto. Firenze 1961; C. Pavanetto, Elementa Linguae et Grammaticae Latinae. Roma 20015; C. Questa, Introduzione alla Metrica di Plauto. Bologna 1967.
Note:
* Infinitamente l’autore ringrazia la Biblioteca Apostolica Vaticana di avergli accordato gentilmente il permesso di consultare i due preziosissimi codici plautini B e D.
[1] A. Ernout (ed.), Plaute. Comédies, Paris 1932-1961, t. ii, p. 128 bis.
[2] Cfr. F. Schoell (ed.), T. Macci Plauti Captivi, Lipsiae 1887, p. 125, la nota al v. 700. Il volume di Schoell fa parte dell’edizione di F. Ritschelius (et socii), tt. i-iv, Lipsiae 1871-1894.
[3] J. P. Waltzing (ed.), Plaute. Les Captifs, Paris 1920, p. 93.
[4] Cfr. F. Schoell, ed. cit., p. 61.
[5] Cfr. G. Lodge, Lexicon Plautinum, Lipsiae 1904-1933, t. i, p. 424, p. 426.
[6] Cfr. G. Goetz - F. Schoell (ed.), T. Macci Plauti Comoediae, Lipsiae 1892-1907, t. ii, p. 92.
[7] J. P. Waltzing, ed. cit., p. 58.
[8] G. Augello (ed.), Le Commedie di Tito Maccio Plauto, Torino 1968-1972, t. i, p. 498.
[9] Nella mia integrazione “perit” è la forma contratta di “periit”, il tempo è cioè perfetto.
[10] L’uso della virgola dopo “patrem” si vede già nelle edizioni di N. E. Angelio (Venezia 1847) e di M. Nisard (Paris 1885).
[11] Per quanto riguarda il doppio senso che esisterebbe nella parola “perit”, vedi infra.
[12] Cfr. G. Lodge, op. cit., t. ii, pp. 311-313.
[13] Cfr. Oxford Latin Dictionary, Oxford 1968, p. 1336.
[14] Tutti i versi citati seguono l’edizione di Ernout.
[15] Cfr. la nota 10.
[16] F. Gaffiot, Dictionnaire Latin-Français, Paris 1934, p. 1145.
[17] Oxford Latin Dictionary, p. 1336.
[18] F. Gaffiot, Dizionario Illustrato Latino-Italiano, Edizione italiana a cura di I. Pin, I. Pinto, C. Sorge, Padova 1973, p. 1050.
[19] Si ricordino il primo emistichio del v. 400: “Meus mihi, suus cuique est carus”, e il v. 640: “[…] Vbi ego minime atque ipsus se uolt maxume”, pronunciati tutti e due da Egione.
[20] Per la personalità di Egione cfr. i vv. 325, 328 e altri; per il suo sviluppo psicologico cfr. i vv. 756, 764-765.
[21] Anche se non si tratta qui di una pura omissione di nota, la trasposizione significa sempre una riattribuzione (vv. 142, 148, 941, 971) o una divergenza di attribuzione (v. 385).
[22] Quasi tutte le notae di questo genere sono stampate in corsivo nell’edizione di Ernout.
[23] Si tratterebbe di errori di stampa. Queste tre notae dovrebbero mettersi fra parentesi angolari, come negli altri casi autentici. “Una certa trascuratezza redazionale” nell’edizione di Ernout è già stata osservata da Augello (cfr. G. Augello, ed. cit., t. i, p. 47).
[24] Si vede qualche volta in altre edizioni una nota messa fra parentesi angolari, ma non da Ernout. Prendo qui un solo esempio: il v. 171 “Hoc illum me mutare confido † fore” è corrotto. Lindsay attribuì a Ergasilo la parte finale del verso “confido fore”, un caso autentico a quello del v. 421.
[25] Nei vv. 398, 867 e 1020 ci sono 2 notae, una messa fra parentesi angolari da Ernout, un’altra non.
[26] Cfr. A. Ernout, ed. cit., t. ii, p. 128 bis.
Li Song-Yang