Catullo 61, 189-198 *
(Maia, 58 (2006): pp. 473-485; revised version)
I. Status quaestionis
I vv. 189-193 del Catull. 61, che nei codici (V) seguono i vv. 194-198, furono tras-posti prima di quest’ultimi da G. Scaligero [1]; quanto a I. Calphurnius, aveva corretto precedentemente remorata (X) del v. 194 in remoratus [2]. La nostra discussione si svolge su questi due emendamenti [3]. Per una maggior chiarezza, citiamo qui sotto i vv. 189-198 secondo l’ordine di Scaligero (con la correzione di Calphurnius), e secondo i codici (con la lezione remorata), indicando i vv. 189-193 come “strofa A” e i vv. 194-198 come “strofa B”:
Scaligero Codici
strofa A strofa B
189 at, marite, ita me iuuent non diu remorata es:
caelites, nihilo minus iam uenis. bona te Venus
pulcer es, neque te Venus iuuerit, quoniam palam
neglegit. sed abit dies: quod cupis cupis, et bonum
(200) perge, ne remorare. non abscondis amorem.
strofa B strofa A
194 non diu remoratus es: at, marite, ita me iuuent
iam uenis. bona te Venus caelites, nihilo minus
iuuerit, quoniam palam pulcer es, neque te Venus
quod cupis cupis, et bonum neglegit. sed abit dies:
(205) non abscondis amorem. perge, ne remorare.
Il v. 194 non è scandibile con remorata (remota in O) es; Calphurnius risolse felicemen-te il problema di metrica. Ma a seguito della sua correzione, il v. 194 e tutta la strofa B, come la A, riguardano lo sposo, nasce così un’apparente incoerenza fra non diu remoratus es: / iam uenis e perge, ne remorare, e da qui deriva l’intervento di Scaligero. L’insieme dei loro emendamenti è accettato da quasi tutti gli editori moderni e contemporanei [4]. M. L. West esprime così il suo pieno consenso:
La strofa (la nostra B) si colloca abbastanza bene dopo i vv. 184-8 iam licet uenias etc., ma i vv. 189-93 non
hanno senso dopo di essa: nihilo minus non ha riferimento, e ne remorare non è opportuno dopo non diu remoratus
es. La trasposizione proposta da Scaligero ristabilisce coerenza fra ciascuna delle tre strofe e quella che la segue ed
è indubbiamente giusta [5].
II. Riflessioni e discussioni
Nonostante il consenso quasi unanime della critica, ci permettiamo di pensare che gli emendamenti di Calphurnius e di Scaligero siano discutibili.
A seguito della correzione di Calphurnius, la strofa B riguarda lo sposo anziché la spo-sa come nei codici. Ma un’attenta lettura del carme intero ci ha fatto pensare che la strofa B riguardi piuttosto la sposa: i vv. 195-198 sembrano gli incoraggiamenti verso la sposa, il finale di una serie di sollecitazioni delle quali è oggetto sempre Iunia. I vv. 31-32 (ac do-mum dominam uoca / coniugis cupidam noui) ci svelano già l’impazienza della sposa [6]; con la strofa B, cantata al momento dell’unione degli sposi nel talamo, il Poeta avrebbe voluto confortare ancora una volta Iunia, dicendole che bona te Venus iuuerit, poiché il suo amore d’ora in poi è legittimo, onesto e sacro; può sciogliere la sua cintura (cfr. v. 53), e palam cupire l’amore coniugale, senza più nascondere la sua flamma intima (cfr. vv. 169-171). Di questi incoraggiamenti non avrebbe bisogno lo sposo, poiché a lui non sono mancate le esperienze sessuali prima del matrimonio. I vv. 109-112 e i Fescennini uersus (vv. 119-143) ci fanno capire che lo sposo palam quod cupit semper cupit, ne malum amorem quidem abscon-dit, senza parlare di un amore onesto. Dunque per Manlius i vv. 195-198 sembrano super-flui, ma necessari, invece, a Iunia. Si noti inoltre che l’unica altra occorrenza sia di bona Venus che di bonus amor la troviamo nei vv. 44-45: Imeneo è chiamato come dux bonae Veneris, boni / coniugator amoris. Quasi subito dopo, il coro invoca il dio dell’amore legit-timo perché tu fero iuueni in manus / floridam ipse puellulam / dedis a gremio suae / matris (vv. 56-59). È proprio il boni coniugator amoris che guida e accompagna la sposa verso l’a-more coniugale, è soprattutto per Iunia che l’amore coniugale è bonus. Oltre a ciò, sembra che diu concordi meglio con le parole tardet, moraris (v. 90), prodeas (vv. <91>, 92, 96, 106, 113), adeat(v. 176) e collocate (v. 181), nonché con la battuta ripetuta abit dies (vv. 90, 105, 112), tutte riguardanti la sposa [7]: all’inizio della cerimonia Iunia tardet e moratur (per il pudore), ma, sollecitata dal coro, non diu remorata est, poiché è comunque coniugis cupida noui. Analizzando la strofa B nel suo contesto, siamo giunti alla conclusione che essa ri-guardi la sposa anziché lo sposo. Si potrebbe quindi intendere i vv. 195-198 in questo modo: (ah Iunia!) la Venere onesta ti assisterà, dal momento che desideri liberamente ciò che desideri, e non nascondi un amore onesto [8].
Secondo West, nihilo minus pulcer es perde il riferimento – la lode della bellezza di Iu-nia (vv. 186-188) – se la strofa B precede la A. Ma questa “incoerenza” non sarebbe asso-lutamente inspiegabile: infatti, il Poeta, con l’animo del corifeo, si immagina di rivolgere il canto ora alla sposa, ora allo sposo, ora ad ambedue, “impartendo ordine alle virgines e ai pueri” [9], – vale a dire che le strofe riguardanti Iunia sarebbero cantate soltanto dalle uir-gines, e parimenti per il campo maschile [10]. Dunque, i pueri, da soli, avrebbero cantato per Manlius i vv. 184-188 e poi la strofa A. La successione di questi versi non sembra tan-to interrotta dalla strofa B, cantata sì fra i vv. 184-188 e la A ma nel campo femminile, cioè a parte. West dice ancora che “ne remorare non è opportuno dopo non diu remoratus es”. Ma se la strofa B riguardasse Iunia, come nel testo dei codici, questa incoerenza non esisterebbe proprio; per di più, le strofe seguenti fino alla fine del carme, soprattutto le vo-ci uestri (v. 202), coniuges, uiuite (v. 226) e exercete (v. 228) avrebbero anche più appoggio e riferimento.
Adesso invitiamo a rileggere i vv. 179-198 nell’ordine dei codici, con la lezione remo-rata:
uirgines ad Iuniam pueri ad Manlium
<uos> bonae senibus uiris / cognitae bene feminae
collocate puellulam. / io Hymen Hymenaee io,
io Hymen Hymenaee. (vv. 179-183)
iam licet uenias, marite: / uxor in thalamo tibi est,
ore floridulo nitens, / alba parthenice uelut
luteumue papauer. (vv. 184-188)
non diu remorata es: / iam uenis. bona te Venus
iuuerit, quoniam palam / quod cupis cupis, et bonum
non abscondis amorem. (vv. 194-198, strofa B)
at, marite, ita me iuuent / caelites, nihilo minus
pulcer es, neque te Venus / neglegit. sed abit dies:
perge, ne remorare. (vv. 189-193, strofa A)
Se l’ordine delle strofe B e A nei codici non presenta per noi alcuna incoerenza, ovvia-mente corrotto è invece il v. 194. Accettando remoratus di Calphurnius, dobbiamo forse accettare anche la trasposizione di Scaligero. I loro emendamenti, felici per la metrica, non sarebbero per questo indiscutibili. Dopo l’intervento di Calphurnius, la strofa B e la A, in cui Venere è nominata due volte quando gli sposi stano per incontrarsi nel talamo, riguardano esclusivamente Manlius, e Iunia viene “dimenticata”. Davanti a remoratus di Calphurnius, non possiamo trattenerci dal fare questa domanda: non sarebbe più ragione-vole che Iunia e Manlius, al momento della loro unione, godessero entrambi del favore della dea dell’amore? Per noi certamente sì! È proprio così che intende il testo dei codici. Piena di paure e commozioni, Iunia, rispetto a Manlius, avrebbe più bisogno dell’aiuto di Venere. Pensiamo all’oecus 5, parete sud del famoso affresco nella Villa dei Misteri di Pompei, nominato da P. Veyne come Lo spavento dell’iniziata [11]; pensiamo ancora al Le Nozze Aldobrandine, affresco conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana, la cui com-posizione centrale è per noi l’illustrazione per eccellenza delle strofe B e A [12]. Ma dell’assistenza di Venere, che il “sesso debole” possiede nel testo dei codici, Calphurnius l’ha privata da secoli fino ad oggi. Da questo punto di vista, la felice correzione dell’uma-nista sarebbe non solo spiacevole, ma addirittura inumana, quindi difficile da accettare [13].
Perché il nostro ragionamento non sembri troppo soggettivo, invitiamo a rileggere alcuni versi di Euripide e di Teocrito, due predecessori e maestri di Catullo insieme a tanti altri poeti greci [14]:
Ὦ Ὑμέναι᾽ ἄναξ∙
μακάριος ὁ γαμέτας,
μακαρία δ᾽ ἐγὼ βασιλικοῖς λέκτροις
κατ᾽ Ἄργος ἁ γαμουμένα
(Eur. Tr. 310-313) [15]
Χαίροις, ὦ νύμφα∙ χαίροις, εὐπένθερε γαμβρέ.
Λατὼ μὲν δοίη, Λατὼ κουροτρόφος, ὔμμιν
εύτεκνίαν∙ Κύπρις δέ, θεὰ Κύπρις, ἶσον ἔρασθαι
ἀλλάλων∙ […]
(Theocr. buc. 18, 49-52) [16]
In questi due brani, i due sposi sono nominati sempre insieme per godere ambedue del favore delle divinità. Si noti che, nell’idillio 18 di Teocrito, i vv. 49-52 precedono imme-diatamente gli auguri di felicità agli sposi, proprio come i vv. 189-198 del Catull. 61. Si potrebbe sentire, allora, nei versi catulliani un’eco lontana dei due brani di Euripide e di Teocrito?
In effetti, i rapporti fra Catullo e i suoi modelli greci sono osservati a lungo dai critici. Per quanto riguarda Euripide, D. Braga così disse: le risonanze stilistiche euripidee sono numerose e importanti nei carmi catulliani, e “non fa meraviglia trovare qualche punto di affinità tra la monodia di Cassandra (Troiane, 307 sgg.) e il carme 61, non solo nell’efym-nion Ὑμήν, ὦ Υμέναι᾽, Υμήν (vv. 331, 311, 314 ecc.), ma anche nello spirito del tragico imeneo cantato dalla figlia di Ecuba” [17]; e sulle affinità fra Teocrito e Catullo: “Il nome di Teocrito risuona di frequente nei versi di Catullo, sia per la tecnica del canto delle Parche, sia per l’epigramma dialogato, sia per numerosi avvicinamenti di forma e di sos-tanza nel canto di Attis, negli epitalami e nei carmi erotici” [18]. Nella sua minuziosa esegesi, oltre a Eur. Tr. 308-340 e ai numerosi altri poeti, P. Fedeli fa spessissimo riferi-mento a Theocr. buc. 18 [19]. L’analisi di F. Cantarella pone l’accento soprattutto sul carattere e sulla personalità del Poeta: il c. 61 “accoglie certamente […] echi e remi-niscenze della migliore tradizione, così classica come ellenistica, della lirica epitalamica: e per un poeta della sensibilità e dell’educazione artistica di Catullo non poteva non essere così. Ma se la mancanza dei modelli originali, a cui il poeta latino si sarà ispirato, non consente di documentare quest’affermazione […], due constatazioni […] si presentano evidenti […]: lo spirito nobilmente e profondamente romano che anima tutto il compo-nimento e la delicata, finissima umanità dell’anima catulliana” [20].
Davanti ai versi di Euripide e di Teocrito, davanti alle osservazioni dei critici, ci sembra veramente difficile credere che Catullo, al momento più significativo di tutta la cerimonia, potesse nominare due – e soltanto due – volte Venere solo per Manlius, e trascurare la povera Iunia. Sanando il metro del v. 194, il nostro umanista non avrebbe violato in buona fede la sacra legge dell’“égalité d’un amour réciproque” [21]?
Oltre al problema appena esposto, ce ne sarebbero altri due da osservare. Il primo riguarda la voce diu. Per noi diu si inserirebbe meglio nel panorama di deductio e collocatio di Iunia. Dopo gli emendamenti di Calphurnius e di Scaligero, non diu remoratus es non solo riguarda Manlius, ma segue subito perge, ne remorare. La vicinanza estrema di questi due versi ci crea veramente qualche perplessità per giustificare l’uso di diu. Le spiegazioni di Fedeli sono rispettabili [22]; da parte nostra, abbiamo un altro ragionamento: se per lo sposo c’è la possibilità di remorari ma in realtà lui arriva presto, si può dire che il Poeta, con i vv. 193-194, vuole accentuare l’impazienza amorosa maschile. Ma nel c. 61 non vediamo nulla che potrebbe ritardare lo sposo. Già in attesa impaziente nell’atrio (cfr. vv. 166, 169-171), cioè non lontano per niente dal talamo, Manlius, una volta sollecitato dai pueri, dovrebbe raggiungere subito la camera nuziale, in un attimo solo. Allora perché non diu? Perché il tempo perfetto? Perché il Poeta avrebbe voluto negare una cosa che non può assolutamente succedere? Invece, se la strofa B riguardasse la sposa, nulla sarebbe più naturale che l’uso di diu nel v. 194: prima di ciò, l’esortazione a Iunia (dal v. 76 al v. 113) e la deductio (dal v. 114 al v. 183) sono già durate per un certo tempo; durante queste due fasi Iunia ha indugiato un po’ (per il pudore), ma non troppo (per l’impazienza amo-rosa che anche lei ha), perciò diu. Inoltre, sembra che non neghi piuttosto diu che il verbo. Ma Manlius, lo ripetiamo, non ha né il motivo di indugiare, né, tanto meno, il motivo di indugiare a lungo; invece Iunia, lei, remorata est realmente, ma non troppo, quindi non diu. Questa interpretazione non sarebbe più accettabile?
L’altro problema riguarda la voce neque. Certo, neque può corrispondere a nihilo, ma non è da escludere – anzi forse è preferibile – il confronto fra bona te (Iunia) Venus iuuerit e neque te (Manlius) Venus neglegit. Lette nell’ordine dei codici, queste due battute sono proprio due pendants, che si corrispondono sia per il senso che per la forma (il parallelismo metrico). La congiunzione neque unisce strettamente le strofe B e A, proprio come il sacro matrimonio unisce in questo momento Iunia e Manlius. Inoltre, il testo dei codici riflette-rebbe anche meglio le mentalità degli antichi Romani: precedendo i pueri, le uirgines assi-curano la sposa del favore di Venere (fra loro ci sarebbe più intimità); per un adu-lescens Romanus, invece, si pensa piuttosto a Marte, dio della guerra (il matrimonio per una donna è proprio come la guerra per un uomo), anche se neque te Venus neglegit. Purtroppo, dopo gli interventi di Calphurnius e di Scaligero, queste ricchezze stilistiche ed antropologiche, che i codici tramanderebbero, si perdono completamente.
III. Una nuova proposta congetturale
Se vogliamo recuperare a Iunia il favore di Venere e sanare nello stesso tempo il metro del v. 194, dovremmo pensare che la corruttela riguardasse es anziché remorata. Per evitare lo iato, potremmo correggere es in sis; oppure in si, mettendo una virgola dopo remorata, cioè: non diu remorata, si / iam uenis [...]. Ma è sempre difficile giustificare sia l’uso del congiuntivo che la mancanza del verbo ausiliare. Infine, ci siamo chiesti se i vv. 194-195 non dovessero leggersi in questa maniera:
non diu remoraris et
iam uenis [...]
Per remoraris, possiamo citare moraris del v. 90: sed moraris, abit dies, che si riferisce ugualmente alla sposa. A favore di et sono i confronti con il v. 226: [...] bene uiuite et, dove la congiunzione he si trova alla fine del verso, ma anche altre occorrenze di et (vv. 93, 197, 204, 215 e 217). In tutti questi casi et unisce sempre i verbi aventi stessi tempi, modi, persone o generi, come remoraris e uenis. Il presente di remoraris potrebbe rendere più ri-conoscibili le caratteristiche di ripetitività e di tentativo dell’azione. E la frase iamuenis, il cui soggetto sarebbe la sposa, potrebbe rappresentare un’eco dei vv. 77: uirgo adest […], 81: flet quod ire necesse est, 115: flammeum uideo uenire, 176: iam cubile adeatuiri, versi che scandiscono il cammino di Iunia verso la casa di Manlius [23].
Con il nostro emendamento nasce un enjambement fra i vv. 194-195. In seguito, un’a-nalisi più approfondita sugli enjambements del c. 61 ci ha condotto a una scoperta inaspet-tata: c’è un enjambement non solo fra tutti i versi della strofa B con il v. 194 da noi emen-dato, ma anche fra tutti i versi della A, ad eccezione dei vv. 192-193; nel secondo e nel terzo verso di queste due strofe l’enjambement termina sempre con la terza sillaba, e se seguiamo i numerosi editori che misero una virgola dopo la prima cupis [24], possiamo fare la stessa osservazione anche sul quarto verso – le strofe B e A hanno le caratteristiche metriche quasi identiche. Pendants, infatti, non sarebbero da considerare soltanto le due battute bona te Venus iuuerit e neque te Venus neglegit, ma addirittura le strofe B e A intere. Adesso riesaminiamo più da vicino questi due pendants nel testo dei codici: 1. la strofa B riguarda Iunia; la A, Manlius; 2. nella B bona Venus iuuerit Iunia; nella A Venus neque neglegit Manlius; 3. all’inizio della B è annunciato l’arrivo di Iunia nel talamo; alla fine della A Manlius è sollecitato di raggiungere il talamo; 4. il primo verso della B mostra in quale modo (non diu remorata es) Iunia è arrivata nel talamo; l’ultimo verso della A fa capire a Manlius in quale modo (ne remorare) deve raggiungere il talamo; 5. tutti questi concetti vengono cantati con un ritmo quasi identico. Visto che gli elementi paralleli sono così ricchi nei due pendants delle strofe B e A – non, nella coppia –, è lecito pensare che questo parallelismo non possa essere causale; esso non sarebbe dovuto a null’altro che alla consapevolezza e alla volontà del Poeta. Cantate al momento dell’unione degli sposi, le strofe B e A, simbolicamente, sarebbero proprio Iunia e Manlius stessi. Quindi, se la strofa A riguarda senza dubbio Manlius, la B, l’altra metà della coppia, non dovrebbe ri-guardare che Iunia. Se si considerassero le due strofe come riguardanti esclusivamente Manlius, si rischierebbe di diminuire il valore altissimo, sia letterario che antropologico, del testo; peggio ancora, si rischierebbe di tradire “lo spirito nobilmente e profondamente romano […] e la delicata, finissima umanità dell’anima” del Poeta.
Con remoraris et, il senso dei vv. 194-195 sarebbe accettabile, ma il soggetto non appare chiaro, può essere sia lo sposo che la sposa; per noi, – sembra superfluo ripeterlo –, sei tu, Iunia, che moraris ma non esageratamente, ed infine, non diu remoraris et iam uenis nella casa di Manlius. Cioè, con la strofa B, l’ultima strofa riguardante esclusivamente la sposa, il Poeta avrebbe fatto un riassunto della deductioe collocatio – questo riassunto è anche una lode incoraggiante alla sposa –, ed in seguito, avrebbe confortato per l’ultima volta Iunia.
IV. La lezione cupis capis
Se la strofa B riguardasse la sposa, la lezione cupis capis meriterebbe più considera-zioni. Oltre a “prendere”, “ottenere”, capio può significare anche “accogliere”, “recevoir qqch légalement” [25]. Ciò che Iunia desidera ricevere da Manlius non è appunto l’amore coniugale legittimo? Dato che quoniam è da noi tradotto con “dal momento che”, il pre-sente di capis e abscondis potrebbe acquistare il valore di futuro per evidenziare l’immi-nenza dell’azione [26]. In questo caso, più che cupis, sarebbe capis ad imporsi: dopo la chiusura della porta (cfr. v. 224), non basterà più agire soltanto nella mente (cupio), ma si potrà e si dovrà agire concretamente (capio): Iunia riceverà l’amore di Manlius, non nasconderà neanche l’amore onesto di lei stessa – l’amore coniugale è reciproco (cfr. Catull. 45, 20; 68, 69). Visto che capis e abscondis possono assumere la funzione di futuro, iuuerit, che è in realtà un futuro anteriore puro e proprio [27], renderebbe ancora più evidente il tono del confortare la sposa. A questo punto, si potrebbe considerare semplice-mente quoniam come temporale, cioè un altro arcaismo accanto a ne remorare – così avremmo un altro elemento parallelo nei due pendants. Concludendo, vorremmo inter-pretare la strofa B in questa maniera: ah! Iunia! non indugi a lungo [28], eccoti qua. Fra poco, incontrerai da sola tuo marito nel talamo. Niente paura! Prima di ciò, Venere, dea dell’amore onesto, saràgià venutaaccanto a te per aiutarti. Sotto i suoi occhi protettori, riceverai liberamente e legittimamente l’amore di Manlius, che desideri durante la ceri-monia, e non nasconderai neppure il tuo amore onesto.
Nella storia della critica testuale catulliana, cupis capis ottenne la preferenza di nume-rosissimi editori, come Calphurnius, A. & B. Guarini, A. Parthenius, Palladius, H. Avantius, A. Manutius, F. Robortellus, M.-A. Muretus, A. Statius, Scaligero, F. Noël, F. G. Doering, M. Nisard, T. Heyse, L. Schwabe, R. Ellis e L. Müller; dopo che O fu segna-lato per la prima volta da Ellis nel 1874 e posto alla base di una recensio da Æ. Baehrens nel 1876, alcuni editori – ad esempio Ellis stesso, Müller, G. Barbèra, F. W. Cornish, C. Pascal, U. Fleres e Cantarella – continuarono a preferire cupis capis, nonostante la testimo-nianza di O, considerata più affidabile, in quanto riporta l’unica lezione cupis cupis [29].
Dopo tutte queste riflessioni, vorremmo restituire la strofa B alla sposa, e ricollocare le strofe B e A nell’ordine dei codici, considerando cupis capis come la lezione più affida-bile, cioè:
uirgines ad Iuniam pueri ad Manlium
(vv. 194-198, strofa B)
non diu remoraris et
iam uenis. bona te Venus
iuuerit, quoniam palam
quod cupis, capis et bonum ([30])
non abscondis amorem.
(vv. 189-193, strofa A)
V. L’analisi della corruzione
Vista la divergenza fra le due lezioni remorata(X) e remota (O), siamo giunti alla seguente ipotesi: un deterioramento materiale in V avrebbe causato una lacuna cancellan-do le tre lettere -ris di remoraris [31]. I trattamenti diversi degli scribi sulla lacuna avrebbero generato le due lezioni diverse: vedendo remora*** del modello, lo scriba di X, convinto che la strofa B riguardasse la sposa, avrebbe aggiunto la desinenza femminile del part. pass. -ta, quindi, remorata; lo scriba di O, invece, avrebbe copiato solo le lettere restanti della parola [32] – sarebbe per questo che la lezione di O ha una sillaba in meno. Ma lo scriba di O, senza fare una qualche aggiunta, sarebbe intervenuto mutando erro-neamente -ra in -ta, scrivendo quindi remota. La confusione fra r e t viene ripetuto dallo scriba di O subito dopo, quando trasforma ingenerari in ingenerati (v. 208), e, nel senso contrario, exercete in exercere (v. 228). Lo stesso deterioramento materiale, inoltre, avrebbe – se non cancellato –reso alquanto illeggibile la lettera t di et. I due scribi, prendendo uenis del verso seguente come riferimento, ci avrebbero lasciato così le lezioni remorata es e remota es, tradendo entrambi remoraris et [33].
VI. Conclusione
Qualsiasi congettura, in particolare quelle che intervengono troppo sulla tradizione manoscritta, deve essere spiegabile da ogni punto di vista per essere accettata senza riserva. Gli emendamenti di Calphurnius e di Scaligero sono brillanti per la metrica, ma alcuni loro aspetti discutibili ci impediscono di condividerli. Il testo dei codici, più ragionevole e riflettente molto meglio lo spirito romano e la “finissima umanità dell’anima” del Poeta, non sarebbe indifendibile, nonostante il suo difetto metrico. Allora, se la nostra proposta congetturale remoraris et non avesse nessuna probabilità, se non ci fossero per il momento altre proposte migliori, il comportamento più rispettoso nei confronti della tradizione manoscritta non sarebbe quello di lasciare il testo dei codici tale e quale, e di mettere due cruces accanto alle parole problematiche remorata (remota) es, restituendo comunque la strofa B a Iunia?
Appare chiaro che il punto di partenza della nostra discussione è sostenuto da questa idea: dubitare il meno possibile della tradizione manoscritta. Con la presente discussione abbiamo voluto difendere il testo dei codici catulliani, senza però essere in grado di con-fermare con assoluta certezza la sua autenticità, ed ancor meno, la probabilità della nostra nuova congettura.
P. S.: La trasposizione della strofa B
Non possiamo determinare con certezza assoluta quali strofe vadano cantate dai pueri, quali altre invece dalle uirgines. Anche se la nostra attribuzione dei vv. 179-198 fosse probabile, qualcuno potrebbe comunque pensare che i vv. 184-188 siano troppo distanti dalla strofa A, cioè, “nihilo minus non ha riferimento”. Proponiamo allora una soluzione: trasporre la strofa B prima dei vv. 184-188. Con quest’intervento, da una parte, la strofa B segue quella di collocatio(vv. 179-183), ambedue riguardanti la sposa; dall’altra, la A segue i vv. 184-188, quindi nihilo minus può ritrovare il suo riferimento [34].
Fra le due versioni della nostra proposta congetturale, propendiamo senza dubbio per la prima, che interviene molto meno sul testo tràdito. In effetti, anche se i vv. 179-198 fossero cantati da tutti i fanciulli insieme, ci si potrebbe chiedere comunque: la strofa B è veramente così ingombrante fra i vv. 184-188 e la A al punto che nihilo minus rischia addirittura di perdere riferimento? Noi crediamo, invero, che, se queste quattro strofe fossero cantate alternamente dalle uirginese dai pueri, si potrebbe concretizzare molto meglio l’unione della metà femminile con la metà maschile; l’effetto corale sarebbe più vivace e ritmico, e l’atmosfera della cerimonia più gioiosa.
Per quanto riguarda la trasposizione della strofa B, è lecito notare che, in tutta la storia della critica testuale catulliana, eccetto i pochissimi singoli versi trasposti, l’intervento scaligeriano è l’unica trasposizione di tale dimensione, accettata da quasi tutti gli editori moderni e contemporanei. Scaligero traspose la strofa A per risolvere un’incoerenza cau-sata dalla correzione di Calphurnius. Se Calphurnius avesse sbagliato, l’intervento di Scaligero diventerebbe subito sospetto [35], come qualsiasi altro intervento simile. E dun-que, anche la nostra trasposizione della B. Contro la trasposizione della strofa B opera anche un altro motivo, puramente poetico: come abbiamo già detto, le strofe B e A sim-bolicamente sono proprio i due sposi stessi, uniti a questo momento tanto desiderato. La trasposizione della B per noi significa addirittura la separazione forzata di Iunia e Manlius. Ma il Poeta, con la sinalefe marit(e) uxor (vv. 184-185), ha già fuso insieme i due sposi, che non sono più separabili, sia nell’epitalamio che nella loro vita coniugale tutta nuova.
In effetti, anche se la strofa B riguardasse lo sposo – ipotesi che vorremmo rifiutare con determinazione –, l’ordine dei codici potrebbe difendersi ugualmente: nulla avrebbe potuto vietare al coro di cantare rivolto a Manlius non diu remoratus es […] mentre stava entrando dall’atrio nel peristylium (intorno al quale si trovavano le camere da letto, dun-que, il talamo), e poi ancora perge, ne remorare nel momento in cui si accingeva a varcare – o stava varcando – la soglia del talamo; fra queste due battute non si rivelerebbe nessuna incoerenza [36]. Questo ragionamento è stato probabilmente anche lo stesso di Cal-phurnius, dei predecessori di Scaligero, e di H. Tuscanella, F. Raphelengius e F. Acerbo, unici editori che, a nostra conoscenza, abbiano respinto la trasposizione scaligeriana.
Comunque sia, noi, avendo recuperato a Iunia il favore di Venere con la congettura remoraris et, e dando fiducia ai codici catulliani per l’ordine delle strofe B e A, vogliamo ritornare al nostro punto di partenza, con più serenità.
Bibliografia:
I. Codici originali:
Vat. Ottob. Lat. 1829 (= R); Pal. Lat. 910; Vat. Lat. 1630 (= Va); Vat. Lat. 1608; Vat. Lat. 3219; Vat. Lat. 7192; Urb. Lat. 641; Urb. Lat. 812.
II. Codici riprodotti:
G = Manuscrit de St-Germain-des-Prés (Bibliothèque Nationale, n° 14137), Paris 1890; O = Catulli Codex Oxoniensis Bibliothecae Bodleianae Canonicianus class. lat. 30, Lugduni Batavorum 1966; m = Liber Catulli Bibliothecae Marcianae Venetiarum (cod. lat. lxxx classisxii), Venetiis 1893; B = Catulli Codex Bononiensis 2621, Bononiae 1950; Q= Catulli Codex Brixianus A vii 7, Bononiae 1954.
III. Edizioni catulliane:
I. Calphurnius (Vicentiae 1481); A. Parthenius (Venetiis 1488); A. Parthenius (Venetiis, 1493); Palladius (Venetiis 1496); H. Avantius - A. Manutius (Venetiis 1502); A. & B. Guarini (Venetiis 1521); M.-A. Muretus (Venetiis 1554); A. Statius (Venetiis 1566); I. Scaliger (Lutetiae 1577); C. Morel (Lutetiae 1604); H. Tuscanella (Hanoviae 1608); F. Raphelen-gius ([Lugduni Batavorum] 1613); A. Vulpius (Patavii 1710); F. Noël (Paris 1803); F. G. Doering (Aug. Taurinorum 1820); F. G. Doeringius - J. A. Amar (Parisiis 1821); M. Nisard (Paris 1843); M. C. Denanfrid (Paris 1845); T. Heyse (Berolini 1855); M. Haupt (Lipsiae 1861); L. Schwabius (Gissae 1862-1866); R. Ellis (Oxonii 1867); L. Mueller (Lipsiae 1870, 1885); L. Mueller (Lipsiae 1874); Æ. Baehrens (Lipsiae 1876); R. Ellis (Oxonii 1878); A. Riese (Leipzig 1884); B. Schmidt (Lipsiae 1887); E. T. Merrill (Boston-London 1893); G. Friedrich (Leipzig-Berlin 1908); G. Barbèra (Flo-rentiae 1912); F. W. Cornish (London-Cambridge (Mass.) 1913, 1956); C. Pascal (Torino 1916); G. Lafaye (Paris 1922); W. Kroll (Stuttgart 1923, 1980); U. Fleres (Milano 1929); F. Cantarella (Milano-Genova-Roma-Napoli 1933[7]); M. Lenchantin de Gubernatis (Torino 1933, 1988); E. Cazzaniga (Aug. Taurinorum [etc.] 1941, 1956[3]); E. V. D’Arbela (Milano 1946); M. Schuster - W. Eisenhut (Lipsiae 1958[3]); R. A. B. Mynors (Oxonii 1958, 1960[2]); H. Bardon (Stutgardiae 1973); F. Della Corte ([Milano] 1977, 2003[10]); H.-J. Glücklich (Göttingen 1980); W. Eisenhut (Lipsiae 1983); M. Bonaria (Milano 1990); F. Acerbo (Roma 1991); F. Cantarella - R. Cantarella - M. Pinto ([Roma] 1996[9]); D. F. S. Thomson (Toronto-Buffalo-London 1997); G. Padano - A. Grilli (Torino 1997, 2004[3]).
IV. Altre fonti:
P. Fabre (ed.), César. La guerre civile. t. ii: Livre iii, Paris 1959; Ph.-E. Legrand (ed.), Bucoliques grecs. t. i: Théocrite, Paris 1960[5]; P. Mazon (ed.), Hésiode. Théogonie. Les travaux et les jours. Le bouclier, Paris 1960[5]; L. Parmentier -H. Grégoire (ed.), Euripide. t. iv: Les Troyennes. Iphigénie en Tauride. Électre, Paris 1959.
V. Altri strumenti di ricerca:
I. Baldassarre - A. Pontrandolfo - A. Rouveret - M. Salvadori, Pittura Romana: dall’ellenismo al tardo-antico, Milano 2002; M. Bettini (a cura di), Cultura e letteratura a Roma: profilo storico e testi, Firenze 2000[2], 2002 (rist.); G. G. Biondi, Semantica di cupis, Bologna 1979; D. Braga, Catullo e i poeti greci, Messina-Firenze 1950; C. Calame (a cura di), Rito e poesia corale in Grecia: guida storica e critica, Roma-Bari 1977 (in part. R. Muth, Imeneo ed epitalamio, pp. 45-58); Ch. Daremberg - E. Saglio, Dictionnaire des Antiquités grecques et romaines, Graz 1963 (rist.); F. Della Corte, Due studi catul-liani, Genova 1951; P. Fedeli, Catullus’ carmen 61, Amsterdam 1983; F. Gaffiot, Dictionnaire illustré latin-français, Paris 1934; P. Grimal, L’amour à Rome, Paris 2002; J. P. Holoka, Gaius Valerius Catullus, a systematic bibliography, New York-London 1985; G. Lafaye, Catulle et ses modèles, Paris 1894; A. Salvatore, Edizione critica e critica del testo, Roma 1983; P. Veyne - F. Lissarague - F. Frontisi-Ducroux, I misteri del gineceo, traduzione di B. Gregori, Roma-Bari 2003; M. L. West, Critica del testo e tecnica dell’edizione, traduzione di G. Di Maria, Palermo 1991, 1998 (rist.); G. Williams, Tradition and originality in Roman poetry, Oxford 1968.
Note:
* Ringrazio infinitamente la Biblioteca Apostolica Vaticana di avermi permesso di consultare i codici catulliani, fra cui R. Vorrei dedicare il presente lavoro alla Professoressa Jacqueline Li-Alézaïs, ancienne élève de l’École Normale Supé-rieure, agrégée de lettres classiques, che mi ha insegnato ad amare la lingua di Plauto e di Catullo.
[1] Cfr. I. Scaliger (ed.), Catulli, Tibulli, Properti nova editio, Lutetiae 1577, pp. 35-36.
[2] Cfr. l’edizione di I. Calphurnius, typ. I. Revensis et D. Berthocus, Vicentiae 1481, [s. p.].
[3] Altri problemi testuali che si rivelano nei vv. 189-198 non fanno oggetto della nostra discussione, eccetto la lezione cupis capis. Il testo latino riprodotto segue R. A. B. Mynors (ed.), C. Valerii Catulli carmina, Oxonii 1958, 1960[2].
[4] Le uniche eccezioni, secondo quanto è a noi noto, riguardano H. Tuscanella (Hanoviae 1608), F. Raphelengius ([Leida] 1613) e F. Acerbo (Roma 1991). Tutti e tre, accettando la correzione di Calphurnius, respingendo invece la trasposizione scaligeriana. Acerbo adottò il testo di F. G. Doering (Torino 1820).
[5] M. L. West,Critica del testo e tecnica dell’edizione, Palermo 1991, 1998 (rist.), p. 139. Scaligero stesso così spiegò il suo intervento: “Transposita enim hæc Strophe locum cum superiore commutare debet. itaque sic omnia suo ordini reponimus, et tunc facile menda ipsa tollemus. [...] Nolo eruditorum iudicio diffidere. Nam et mediocriter docti facile videre possunt quantum commissum erat illo transpositu Stropharum, et quam bene inter se cohæreant illo, quo posuimus, ordine” (Castigationes in Catullum, Tibullum, Propertium, Lutetiae 1577, pp. 52-53).
[6] Si noti la corrispondenza fra cupidam (v. 32) e quod cupis cupis (v. 197). Per la discordanza nell’interpretazione dei vv. 31-33, vedi G. G. Biondi, Semantica di cupidus, Bologna 1979; P. Fedeli, Catullus’ carmen 61, Amsterdam 1983, pp. 37-38. Seguiamo Fedeli, che segue, a sua volta, Calphurnius, A. & B. Guarini, A. Parthenius, Palladius, H. Avantius, A. Manutius, F. Robortellus, M.-A. Muretus, A. Statius, Scaligero, A. Vulpius, E. Fraenkel, Th. Heyse, M. Haupt, L. Schwabe, R. Ellis, Æ. Baehrens, A. Riese, B. Schmidt, E. T. Merrill, G. Friedrich, C. Pascal e Mynors, ecc. Fra i critici contemporanei favorevoli a questa interpretazione citiamo ad esempio F. Della Corte, G. Paduano e A. Grilli. Nell’edi-zione di Paduano - Grilli si possono leggere le analisi psicologiche ed antropologiche sul double bind della sposa (Gaio Valerio Catullo. Le poesie, Torino 1997, 2004[3], pp. 220-221 (la nota al v. 79), 235-236).
[7] L’altra occorrenza di abit dies (v. 192), che riguarda lo sposo, nei codici si legge dopo il v. 194.
[8] Come congiunzione causale, quoniam conserva qualche reminiscenza di quella temporale arcaica, perciò abbiamo scelto nella traduzione “dal momento che”. Leggendosi isolatamente, la strofa B potrebbe sembrare riguardare lo sposo, con quoniam interpretato come “poiché”. Per la nostra interpretazione più completa della strofa B vedi infra il capitolet-to iv: “La lezione cupis capis”.
[9] M. Bettini (a cura di), Cultura e letteratura a Roma: profilo storico e testi, Firenze 2000[2], 2002 (rist.), p. 230.
[10] Cfr. Catull. 62, incui il coro maschile e quello femminile, intonando il canto alternato, esprimono opinioni op-poste sul matrimonio; cfr. anche Hes. sc. 273-280.
[11] Cfr. P. Veyne - F. Lissarague - F. Frontisi-Ducroux, I misteri del gineceo, Roma-Bari 2003, tav. xi.
[12] “Al centro della composizione, la giovane vergine, nella sua pesante veste matrimoniale, la testa nascosta sotto il velo [...], è già là, seduta sul bordo del letto coniugale; ascolta, a testa bassa, l’aria inquieta, una divinità seminuda che la incoraggia con la voce e coi gesti”. Potrebbe trattarsi di “Peithô, la Persuasione, oppure di Venere in persona” (P. Veyne - F. Lissarague - F. Frontisi-Ducroux, op. cit., p. 40).
[13] “La cérémonie du mariage a été souvent décrite (dans les littératures latines). Elle présentait bien des aspects pitto-resques, des rite […]. La plupart ont pour but de « protéger » la fiancée en un moment particulièrement grave de son existence” (P. Grimal, L’amour à Rome, Paris 2002, p. 83).
[14] Purtroppo non si trova qualche riferimento diretto in Saffo, poetessa che ispirò tanto Catullo, né in Callimaco.
[15] Il testo greco riprodotto segue L. Parmentier - H. Grégoire (ed.), Euripide. t. iv: Les Troyennes. Iphigénie en Tauride. Électre, Paris 1959, p. 41 bis.
[16] Il testo greco riprodotto segue Ph.-E. Legrand (ed.), Bucoliques grecs. t. i: Théocrite, Paris 1960[5], p. 162 bis.
[17] D. Braga, Catullo e i poeti greci, Messina-Firenze 1950, p. 93.
[18] Ibid., pp. 242-243.
[19] Cfr. P. Fedeli, op. cit., pp. 12-14, 16, 18, 27, 36, 43, 66, 69, 79, 87, 106, 136, 137, 139, 144, 145 per Theocr. buc. 18; pp. 12, 78 per Eur. Tr. 308-340.
[20] F. Cantarella - R. Cantarella - M. Pinto (ed.), Caio Valerio Catullo. Carmi scelti, [Roma] 1996[9], pp. 173-174. Sui rapporti fra i poeti greci e Catullo vedi anche G. Lafaye, Catulle et ses modèles, Paris 1894, pp. 63-77 (per il c. 61); G. Williams, Tradition and originality in Roman poetry, Oxford 1968, pp. 199-202 (per il c. 61).
[21] La traduzione è di Legrand.
[22] Cfr. P. Fedeli, op. cit., p. 127. Non abbiamo potuto consultare J. Évrard-Gillis, La récurrence lexicale dans l’oeuvre de Catulle: étude stylistique (Paris 1976), al quale Fedeli fa riferimento.
[23] Cfr. anche il v. 62, 4: iam ueniet uirgo […].
[24] Citiamo Avantius, Manutius, Robortellus, Muretus, Statius, Scaligero, Vulpius, F. Noël, Doering, M. Nisard, M. C. Denanfrid, H.-J. Glücklich e Acerbo.
[25] F. Gaffiot, Dictionnaire illustré latin-français, Paris 1934, p. 259. Per l’uso di espressioni di diritto romano cfr. vv. 56-58. Nel significato“ricevere” di capio in questo passo, la nostra fantasia vuole percepire anche un’allusione erotica, che si adeguerebbe bene alla coloritura del carme intero.
[26] Cfr. Caes. b. c. iii, 94, 5: ego reliquas portas circumeo et castrorum praesidiae confirmo.
[27] Alcuni studiosi considerano che iuueritequivale al futuro semplice (M. Lenchantin de Gubernatis (ed.), Il libro di Catullo, Torino 1933, 1988 (rist.), p. 118), oppure “perf. cong. con valore ottativo” (M. Bonaria (ed.), Catullo. I carmi, Milano 1990, p. 113).
[28] Si potrebbe tradurre anche in questo modo: “non tenti di indugiare a lungo”.
[29] Per quanto riguarda G, alcuni editori, come Mynors, H. Bardon e Della Corte, registrano soltanto capis; alcuni altri, ad esempio Lafaye, M. Schuster e D. F. S. Thomson, annotano che in Gsi leggono entrambi cupis e capis, attri-buendo capis a un corrector. PerR, gli editori considerano che cupis è di R, capis è di un corrector. Però, non sarebbe inu-tile notare che, in R, le due lettere a e u, scritte sopraposte, presentano le stesse caratteristiche per l’inchiostro e il tratto. Un altro caso identico riguarda cura / cara del v. 62, 58. Mynors e Thomson considerano che cura è di R, cara è di un corrector. Ma cara viene accettata come la lezione più sicura, mentre capis è invece respinta dalla maggior parte degli editori moderni. Si noti inoltre che capis è anche l’unica lezione di numerosi codici di importanza minore, come m, D,
Q, B, Va, e tutti gli altri codici catulliani conservati nella Biblioteca Apostolica Vaticana (vedi la Bibliografia). Per questo proposito non vogliamo toccare la questione riguardante i rapporti genealogici dei codici catulliani, in quanto non è oggetto della nostra discussione.
[30] Seguendo gli studiosi citati nella nota 24 supra, in particolare Glücklich (Göttingen 1980), abbiamo messo una virgola dopo cupis.
[31] Sappiamo che, secondo la sottoscrizione di G, V era molto corrotto (corruptissimus e salebrosus).
[32] Lo scriba di O, “plus ignorant, a souvent reproduit son modèle avec une docilité machinale qui nous garantit sa fidélité” (G. Lafaye, Catulle. Poésies, Paris 1922, p. xxxi).
[33] Infatti nei codici catulliani non sono pochi gli esempi della confusione fra le due consonanti finali t e s. Ciò potrebbe rendere più spiegabile l’ipotetica aggiunta della desinenza -ta in X. Cfr. 7, 4: iacet : iaces (O), 68, 2: mittis : mittit (X), 68, 10: petis : petit (G), 88, 1: facit : facis (R), 110, 7: officiis: efficit (V), ecc.
[34] In questo caso non si è costretti a fare una qualche attribuzione delle strofe, che i pueri e le uirgines potrebbero cantarle insieme.
[35] “Scaligero ha pure il merito di aver capito che anche i codici antichi non sono privi di corruttele, che solo il iudi-cium può sanare; ma egli non di rado andò oltre il segno, e in questa tendenza all’emendatio, inoltre operò arbitrarie trasposizioni di brani, specialmente di Tibullo, suscitando le giuste critiche di Chr. G. Heyne e di M. Haupt” (A. Salvatore, Edizione critica e critica del testo, Roma 1983, p. 41).
[36] Il breve itinerario dello sposo, nella nostra immaginazione, è il seguente: atrium, tablinum, peristylium, thalamus.
Li Song-Yang